Si chiamano Empire of the Sun ma non vengono dal Giappone, come look e suggestioni possono far pensare, ma dall’Australia. Con Ice On The Dune, il loro secondo album, che arriva a 5 anni dall’esordio, stanno scalando il gradimento del pop mondiale. Alive e Discovery sono i singoli di successo di questa estate. Nick Littlemore e Steele sono i loro nomi. Li abbiamo incontrati a Milano al lancio del disco, in previsione di un minitour italiano in autunno.
L’album è una sorta di concept, ce lo spiegate brevemente?
«Il mondo lo abbiamo immaginato una volta puro e oggi devastato. Le canzoni sono incentrate sulla figura di un imperatore e di un profeta che lottano per riconquistare il dominio mondiale e l’ordina contro il re delle ombre. È un pretesto per portare il nostro ascoltatore in un mondo di sogni e allontanarlo dalla quotidianità, secondo noi la musica di evasione dovrebbe fare questo.»
È quindi un disco che non si può comprare “a pezzi”?
«Non siamo convinti che la politica delle vendite online sia la più giusta per noi quando ci piace un disco lo ascoltiamo per intero, il cd è fatto per essere ascoltato per tutto il suo contenuto. Come si fa a dire ne voglio solo un pezzo? È come un quadro, non lo puoi spezzettare per apprezzarlo.»
Vi disturba essere ricordati per il vostro aspetto, le trovate fantastiche dei vostri video?
«Ci piace l’immaginario giapponese, questo è vero. Qualcuno ci ha detto che ricordiamo gli anni Ottanta, ma nel sound sicuramente non ci ritroviamo in questa similitudine. Siamo stati grafici e siamo usciti dalle scuole d’arte quindi questo ha avuto un suo effetto. È vero però che ci rifacciamo a un tempo in cui gli idoli musicali erano avvolti nel mistero, mettevano in piedi dei veri show ovunque si trovassero. Ci piace il colore, la fantasia. Oggi con i social network anche le superstar sono a stretto contatto con i loro fan, secondo noi si perde un po’ di magia.»
Per il lavoro che fate, vivete in posti diversi. Dove vi sentite a casa?
«Ci siamo trasferiti in America ma vogliamo far parte del mondo. Diciamo che chiamiamo ancora l’Australia la nostra casa, e ci dispiace a volte stare lontano ma il mondo è grande e bisogna esplorarlo. In questi ultimi 5 anni abbiamo capito che c’è anche più interconnessione tra le persone, anche tra il cosiddetto primo e secondo o terzo mondo.»
C’è qualcosa della cultura musicale australiana che vi portate dietro?
«Gli Aussie (così si chiamano famigliarmente gli australiani, ndr) sono molto psichedelici, gli aborigeni in particolari sono molto infatuati dalla mitologia e noi ci siamo impegnati nel diventare il più ridicoli possibili per essere notati! A parte gli scherzi crediamo che ci sia del colore e del folk nel nostro aspetto che viene da lì. Anche il fatto di essere vissuti lontano dagli altri continenti, separati dall’acqua ci ha spinto forse a essere più comunicativi. Tutti gli australiani in qualche modo lo sono, i messaggi che vogliamo far ascoltare sono gridati attraverso deserti e oceani. La natura, i grandi spazi, fare surf, sono tutte fonti di ispirazione per noi.»
La vostra musica mette allegria e sorprende. Credete sia questo il vostro compito?
«È molto facile scrivere di depressione ma non è per noi. Il nostro compito è diverso, vogliamo essere come in un mega film fantascientifico, tipo “Avatar” dove i personaggi sono tutti connessi. Come artisti in questo momento storico è bello sentirsi felici quando si scrive qualcosa che fa sognare il pubblico. Ma non faremo mai i politici con le canzoni.»
I vostri video mostrano posti spettacolari e ambientazioni naturali. C’è un posto che avete visto e vi è rimasto nel cuore?
«In Messico la prima volta che siamo stati lì ci sono rimaste impresse delle sculture enormi. Ma poi ci sono anche delle ispirazioni di gallerie d’arte di New York, che è la città più artificiale del pianeta ma che comunque ti resta dentro. Il Red Rock Canyon in America è il potere della natura, ti guardi il tuo piccolo corpo nell’immensità del paesaggio e metti tutto in prospettiva.»
Sembra quasi un’affermazione religiosa…
«Crediamo in una grande potenza, una religione personalizzata, anche se siamo nati come figli della Chiesa Anglicana.»