“Ascoltare troppo Wagner fa venir voglia di invadere la Polonia…”, diceva ironicamente Woody Allen, e tale è stata anche la nostra involontaria (e ammettiamolo, incongrua) reminiscenza, quando ci siamo trovati al cospetto di una locandina interamente wagneriana, per quest’ultimo concerto del direttore Juraj Valčhua alla guida dell’orchestra sancarliana (ultimo, perché purtroppo per noi il maestro ceco si trasferirà oltreoceano, dal prossimo settembre).
Facezie a parte, l’essenza di questo concerto stava in una serie di “estratti orchestrali” di celebri pagine dalle opere di Richard Wagner, che da molti e molti decenni costituiscono un superbo banco di prova per ogni compagine sinfonica che si rispetti, oltre che un notevole biglietto da visita per le bacchette sul podio.
Il punto storico-musicologico qui comunque non sta, ovviamente, nella questione dell’antisemitismo wagneriano o della (facile) appropriazione postuma che il nazismo fece della musica del genio di Lipsia (1813-1883); bensì in un’apparente auto-contraddizione dell’autore stesso: quella, cioè, tra la concezione negativa che Wagner aveva e che enunciò, da buon esegeta di se stesso e del proprio ruolo di artista rivoluzionario, circa la “musica assoluta”, intesa come puramente strumentale, e l’operazione da lui promossa – evidentemente a scopo strategico e come si direbbe oggi, “di marketing” – di estrapolare le migliori pagine orchestrali dalle sue opere, e “cucirle” assieme presentandole in forma di concerto.
“Effetto senza causa” era, infatti, la peggior accusa che Wagner potesse muovere e che mosse alla musica operistica prima di lui, cioè prima della sua personale discesa in campo, con il progetto di “opera d’arte dell’avvenire e totale”, ossia di Wort-Ton-Drama (parola-musica-azione). Eppure, quanto fallace e utopistica fosse questa visione, sembrerebbe dimostrarlo il concerto stesso di stasera, dove si è udita una stupenda carrellata di musica “ad effetto”, ma di un effetto che, una volta tolto il contesto scenico-drammatico che gli è proprio (e degli altri due ingredienti essenziali: la parola e l’azione), rischia proprio di apparire “senza causa” e diventare alla fine calligrafico.
Intendiamoci: è musica “assoluta” e assolutamente magnifica, incomparabilmente nuova e rivoluzionaria per i tempi (si pensi anche solo al famoso “accordo di Tristano”, dal Tristano e Isotta del 1859: del tutto sconosciuto a qualunque precedente manuale di armonia) e destinata subito dopo ad essere infinitamente emulata (oltre a seguaci “dichiarati” come Humperdinck, vengono subito in mente Dvorak, Puccini o Strauss, o perfino Stravinskij quando usa la sovrapposizione di ritmi diversi, o decine d’altri; e viene in mente che perfino nei circoli intellettuali della Napoli tra Otto e Novecento, Wagner fu oggetto di adorazione quasi fanatica; ma allora Napoli era ben più musicofila di adesso).
Musica ancor oggi a tratti sconcertante, che colpisce perché intrisa e carica di ogni possibile forma di plastica espressività: talora roboante, ruggente e tonante, addirittura bellica; più spesso languida, dolcissima, lirica e patetica, sinuosa e sensuale; molte volte decadente e parossistica, per esempio nel suo puntare di continuo vero l’alto e di continuo ripiombare su se stessa. E questo perché l’arte del suo geniale autore aspirava a ritrarvi tutto quanto fosse di “puramente umano”, in ogni sua sfaccettatura e soprattutto nei suoi caratteri essenziali e nei sentimenti tipici: donde la tecnica del Leitmotiv e quella della “melodia infinita”, ossia la trama cangiante e circolare conferita alle relazioni motiviche, che ormai aveva definitivamente sostituito non solo l’architettura classica della “forma-sonata” (quella l’aveva già superata l’ultimo Beethoven), o meglio – parlando d’opera – la tradizionale concezione dei “pezzi chiusi” e dell’ “opera-mosaico”, ma perfino la normale sintassi melodico-ritmico-armonica basata sulla cosiddetta “quadratura” del periodo.
E tuttavia tutte queste questioni esorbitano dalla cronaca del concerto, alla quale dunque subito torniamo. Si comincia con il Preludio Atto I de I Maestri cantori di Norimberga (1861-67): pagina magniloquente, con il celebre tema a fanfare per cui l’autore scrisse una didascalia (“I maestri cantori avanzano in solenne corteo davanti al popolo di Norimberga, portando in processione le Tavole in cui sono custodite le leggi antiche”), che Valčhua legge e porge in modo anche più solenne e posato del solito, ottenendo pregevoli impasti sonori dagli archi (primi e secondi violini, soprattutto), così come dai fiati (sia i legni che gli ottoni, al netto di qualche lieve sbavatura dei corni). Bellissimo, ad esempio, il momento in cui il secondo tema vero e proprio, presentato quasi a mo’ di “intermezzo”, viene eseguito da uno stupendo concertato dei fiati, per poi passare agli archi e dopo ancora venir come “rimpallato” di continuo tra le varie sezioni orchestrali.
A seguire, il “Preludio e Morte di Isotta” dal predetto Tristano e Isotta, col suo travaglio cromatico inesausto che per Wagner rappresentava, meglio di ogni altra cosa, l’ambivalente legame di Amore e Morte: bello qui il fraseggio legatissimo degli archi, o le impetuose accelerazioni seguite dagli altrettanto decisi rallentando.
In un clima solo apparentemente simile al precedente, ma più ascetico, ci ha quindi trasportati il successivo “Incantesimo del Venerdì Santo” dal Parsifal (1882), che non è pagina altrettanto celebre del “Preludio” dell’opera, con quel suo memorabile tema scalare, ma dove pure echeggia quel tema epico e immortale, però combinato insieme ad altri, e dove forse la cifra più caratteristica va appunto indicata nelle delicate transizioni tematiche tra una sezione e l’altra. Qui, davvero, per rendere un buon servigio alla partitura, s’impone un serrato controllo dell’organico ed una perfetta resa di tutti i comparti, poiché è proprio questione di “orologeria svizzera”. E si tenga presente che Wagner stesso scrisse molto sull’ “arte del dirigere” e sull’interpretazione delle sue proprie opere: scritti che non dovrebbero deliziare solo il musicologo erudito, curioso di sapere come si eseguiva Beethoven prima e come invece lo si cominciò a eseguire dopo Wagner, ma che ogni buon direttore dovrebbe conoscere.
In ogni caso l’orchestra rispondeva a dovere, in modo flessibile e con notevole cura dei dettagli, e sottolineiamo ancora i legni e le loro ottime rese dinamiche (enormemente migliori che in passato). Anche i tempi scelti – altro campo in cui l’autore abbonda di indicazioni – ci sono parsi complessivamente giusti e convincenti.
Il successivo “Mormorio della foresta” dal Secondo Atto del Siegfried (“terza giornata” della cosiddetta Tetralogia nibelungica, 1871) è invece una pagina “naturalistica”, che forse suona un po’ ingenua all’orecchio moderno (corrisponde al momento il cui l’eroe contempla la natura), ma nella quale comunque flauti e clarinetti ben ricreavano “effetti” come quello del risveglio canterino degli uccelli.
Quindi l’Ouverture dal Tannhäuser: altra pagina dall’incipit icastico (il tema col salto di quarta ascendente che si ripete e si tramuta in fanfara, su svolazzi degli archi per intervalli discendenti) e dal finale assai retorico; nella quale invece noi abbiamo apprezzato alcune singole e piccole cose, come la transizione tematica dai legni agli archi, o il passaggio in cui tutta l’orchestra riprende il tema principale, mentre i contrabassi eseguono una sorta di controtempo. Qui e altrove, magari, si sarebbe gradita maggiore lena da un comparto come i violoncelli, ma nel complesso c’erano tutti i segni di un lavoro diligente di concertazione e di prova, che magari non sarà stato estenuante, ma che c’è stato e che ha dato i suoi frutti.
Infine, come bis, il Preludio dal Lohengrin (atto III): pagina scintillante, che tuttavia poco aggiungeva a quanto già eseguito e attentamente ascoltato e apprezzato dal pubblico.
Valčhua si conferma bravo e valido sul podio, mostrandosi ben consapevole delle tantissime figurazioni musicali presenti in partitura, e riuscendo (quasi) sempre a sottolinearle e a ottenerle dall’orchestra. Il suo gesto non brilla forse per somma eleganza, ma è comunque efficace. Il suo piglio serio, misto a un’espressione talora sorniona e complice, sembra piacere all’orchestra; e certamente attrae l’attenzione delle signore presenti in sala (una sala discretamente affollata, considerando il calendario ormai ampiamente estivo) la sua figura slanciata e il giovanile ciuffo ribelle.