Ivan Cotroneo – tra i registi italiani più interessanti del momento, premiato per il suo ultimo film “Un bacio” – ha aperto la sesta edizione del Social World Film Festival. Con il suo ultimo lavoro cinematografico, Cotroneo, si avvicina al mondo adolescenziale, toccando temi molto delicati come quello dell’omofobia e del bullismo. Attraverso questi argomenti – molto difficili da toccare – il regista, scrittore e sceneggiatore è riuscito a trarne fuori un capolavoro dei nostri giorni. Ivan Cotroneo si è concesso ad alcune domande con i giornalisti.
Premiato al Social World Film Festival per il tuo ultimo film Un Bacio, che sta avendo molti consensi per le tematiche affrontate, quali sono le reazioni del pubblico?
«La sorpresa di questo film è la risposta avuta dopo la distribuzione. Un film, uscito il 31 marzo, che ha fatto la sua storia in sala, ma poi abbiamo continuato a portarlo in giro, su richiesta delle scuole, a volte anche delle assemblee degli istituti, che volevano parlare di questo tema. Sarà proiettato anche nelle arene estive e continuerà a settembre alle riaperture delle scuole. C’è stata una proiezione al Ministero della Pubblica Istruzione, voluta dal ministro Giannini che ha deciso di usarlo come strumento per una campagna contro il bullismo, che partirà a settembre. Sono molto contento perché questo film l’ho scritto e pensato proprio per poter parlare a un pubblico di ragazzi. Il film nasce da un romanzo che ho pubblicato nel 2010 e che ho presentato nelle scuole di tutta Italia per i quattro anni successivi e, dall’incontro con i tanti ragazzi e dalle conoscenze delle loro storie, mi è venuta voglia di farne un film. La risposta dei ragazzi per me è sorprendente, perché è molto inusuale che, un film piccolo con 3 attori al loro esordio, riceva tutta questa attenzione del pubblico, in particolar modo del pubblico giovanile. Invece sono stati proprio i ragazzi a sceglierlo, a votarlo, infatti il film è stato premiato con il Ciak Alice giovani. Sono molto contento perché sembrava molto importante parlare di questo tema, non solo alla mia generazione, ma alla generazione dei sedicenni, ragazzi che hanno più o meno la stessa età dei protagonisti del film».
Cosa ne pensi del Social World Film Festival Festival?
«Queste occasioni sono sempre molto importanti, anche perché ci incontriamo fra di noi, incontriamo degli spettatori che vogliono ascoltare le nostre storie e che sentono quali sono i nostri interessi. In questo festival si racconta la contemporaneità in tutte le sue sfaccettature. Storie e persone molto diverse, però tutte vogliono raccontare degli elementi della realtà attraverso il dramma, la commedia e scelte più o meno realistiche, che si muovono a volte tra realtà e sogno, come succede nel mio film».
Dai tuoi libri alla trasposizione al cinema. Quale censura hai sopportato o hai messo o ti sei azzardato in questo film rispetto al libro?
Sono molto fortunato perché ho dei produttori che si fidano molto di me dal primo libro. Francesca Cima e Nicola Giuliano, i produttori della Indigo Film, si confrontano molto con i registi. In realtà, devo a loro il mio esordio con la regia. Avevano comprato i diritti cinematografici del mio primo libro “La Kryptonite nella borsa”, all’inizio dovevo essere solo lo sceneggiatore, poi nel lavoro della sceneggiatura, man mano specificavo come vedevo il film. Come doveva essere il bambino o chi potevano essere gli attori e quali dovevano essere le musiche. A un certo punto, loro per esasperazione mi dissero: “non troveremo mai un regista che fa tutte queste cose, quindi, falle tu”. Sono fortunato perché i miei produttori mi ascoltano. Per motivi diversi sono genitori tutti e due e anch, sulla base dei racconti che avevo fatto dai miei incontri per “Un bacio”, erano consapevoli entrambi della necessità di un film su questi temi. Abbiamo discusso e confrontati molto e non ho avuto nessun tipo di censura, sia dai produttori, sia da tutte le persone che hanno contribuito al film. Ho avuto degli appoggi notevoli da parte di una produzione, per esempio, come la Titanus che, dopo ventisei anni, è tornata al cinema con il mio film oppure parlando di collaborazioni per me molto importanti come quella di Mika che ha deciso di darmi le sue musiche e il suo pezzo Hurts per il film. Per quanto riguarda la mia censura è stata molto interessante il lavoro fatto sul libro per questo film, perché io non mi sono censurato, però, è stata molto forte e presente l’idea di poter parlare con i ragazzi. Piuttosto che censurarmi ho cercato di dimenticarmi di essere un quarantottenne e di ricordarmi com’era stata quella stagione della vita, i sedici anni, in cui tutto succede per la prima volta. La festa a cui non vieni invitato è una tragedia. Il primo bacio che dai è un imbarazzo terrificante. Il primo insulto che ricevi è la prima offesa vera della vita».
Parliamo della tua collaborazione con Mika?
«Mika è un artista che amo molto, mi piace molto la sua musica. L’ho conosciuto in occasione di un’intervista, ma avevo sentito Hurts, pezzo che fa parte del suo album No place in heaven, che parla delle ferite che possono lasciare le parole, di come esse possano portare a delle violenze forti, importanti che non siano innocenti, quindi gli chiesi di poter utilizzare la canzone nel mio film. Mika, giustamente, è molto attento all’utilizzo della sua musica, ha voluto vedere il film. Io gli ho fatto vedere una versione premontata di Un bacio, che a lui è piaciuta molto. Mi ha disse che il film sarebbe stato molto visto nelle scuole e lui voleva fortemente farne parte, anche perché il bullismo è un tema che gli interessa molto. Quindi, non solo mi ha dato il pezzo, ma ha voluto realizzare anche un video. A volte i videoclip legati ai film si fanno solo con un lavoro di montaggio, invece Mika ha accettato di venire a Udine, abbiamo ricostruito alcune scene del film, ha lavorato insieme agli attori protagonisti del film. È stato estremamente generoso e lo è ancora verso di me, verso il film e verso questo tema così importante. È stato un incontro veramente straordinario e spero che continueremo ancora a lavorare insieme».
Hai lavorato anche con Ozpetek al film Mine Vaganti. Quanto ha influito lui sui tuoi lavori contemporanei?
«Io e Ferzan Ozpetek abbiamo collaborato per Mine Vaganti molto felicemente insieme e abbiamo un’amicizia che continua. Mi auguro di lavorare nuovamente insieme. Ho cominciato a lavorare con Ozpetek che ero già un fan dei suoi film, lui aveva letto La kryptonite nella borsa, che avevo già pubblicato. Non so dire se e quanto lui mi influenzi, se è così mi fa piacere. È un regista che stimo. Ha voglia di comunicare con il suo pubblico, così come io ho voglia di comunicare con il mio. Mi piace pensare che il nostro sia stato, sia per Mine Vaganti, sia per quello che succederà in futuro, un incontro di due persone che guardano il mondo con degli occhi simili».
Paura. Omofobia. Bullismo. Un libro che ha un po’ di anni e un film recentissimo, in mezzo un vuoto legislativo e forse anche un vuoto culturale. Cosa pensi a riguardo?
«In realtà, questo film nasce proprio da questo vuoto legislativo. Ricordo perfettamente che una delle molle che mi ha fatto scrivere il libro e che poi ha portato al film, è stato quando ho letto di un terribile fatto di cronaca accaduto nel 2008 negli Stati Uniti, l’omicidio di Larry King. Subito dopo essere venuto a conoscenza di questo fatto, nel 2009 ripensavo a come trasformare questo fatto di cronaca in un racconto. Si dibatteva allora della legge Concia, una delle tante proposte di legge che abbiamo cercato di avere in Italia, perché ci fosse l’aggravante omofobica nei reati di violenza, un’aggravante che esiste in tutti i paesi occidentali e in tutta Europa, tranne che in Italia. Vuol dire che quando qualcuno viene picchiato o viene fatta qualsiasi tipo di violenza per il solo motivo del suo orientamento sessuale è considerato un crimine di odio, come dicono gli americani, quindi, va punito più gravemente. Questa è la legge che ancora non abbiamo, fortunatamente, però, si stanno muovendo delle cose. Quando ho cominciato a scrivere il libro non si pensava ancora a una legge sulle unioni civili. Siamo passati attraverso una serie di pasticci legislativi e nessuno aveva coraggio di dire legge sulle unioni civili, abbiamo avuto i DICO e i PACS, adesso per la prima volta nel nostro Paese, abbiamo una legge entrata effettivamente in vigore. Le cose stanno cambiando, ovviamente non bastano leggi, che però sono necessarie per cambiare le cose, ma è necessario anche lo stato d’animo più tranquillo e sereno e una società più disposta all’inclusione e all’apertura. Questi sono i temi dei miei film e mi auguro che tra non molti anni, spero meno di cinque o di 10, che al mio film si possa guardare come a un documento di questi anni già superato, perché discriminare una persona solo sulla base del suo orientamento sessuale verrà considerato un evento stupido».
Oggi qual è il segreto per scrivere una storia vincente?
«Saperlo sarebbe bello, ma allo stesso tempo brutto. Non lo sappiamo mai. Scrivere delle storie è quello è quello che ci spinge a lavorare con entusiasmo. Sappiamo il contrario, quando abbiamo provato, nella storia del cinema italiano, a ripetere delle formule o a trovare delle formule, in qualche modo, narrativamente o come coproduzioni, abbiamo fatto film che non interessavano a nessuno. I film che adesso il pubblico trova interessanti, per fortuna, sono quelli che si distinguono dagli altri per originalità e innovazione. Questo è stato un anno ricco di film molto importanti, come Jeeg Robot, Perfetti Sconosciuti, Fiore di Claudio Giovannesi. Credo che tutti abbiamo imparato la lezione, anche i produttori. È inutile inseguire successi già accaduti. Il pubblico si aspetta qualcosa di nuovo. Film come La mafia uccide solo d’estate di Pif o Smetto quando voglio di Sydney Sibilia, sono prodotti filmici dove nessuno si aspettava un successo così clamoroso. In realtà, è anche molto stupido e anche inefficace cercare di rivedere i gusti del pubblico, bisogna lavorare alle storie che ci interessano e avere il sentimento di necessità e di urgenza sulle storie che vogliamo raccontare, soprattutto la voglia di condividerle con gli altri, ciò non significa appiattire le storie, ma aver voglia di raccontare il mondo così come lo vediamo e non raccontarcelo solo a noi stessi».
Quale potenza attribuisci al linguaggio del cinema nel raccontare storie di denuncia?
«Attribuisco una potenza fortissima al cinema e anche alla televisione. Attribuisco al racconto una grande capacità di muovere le cose. Quando giravo per le scuole con il libro, gli atteggiamenti sull’omofobia e sul bullismo erano molto differenti, a seconda delle scuole o degli insegnanti o degli ambienti in cui mi muovevo. Una scuola romana, in particolare, mi è rimasta impressa perché i ragazzi volevano sapere delle cose più dettagliate, erano molto preoccupati dell’offesa e di che cosa significava usare delle parole scherzose invece di quelle offensive. Soltanto dopo ho saputo che erano così attenti al tema perché un ragazzo nella scuola media vicina, aveva tentato il suicidio pochi mesi prima. Quando le storie accadono vicino a noi, cambiano le cose e il nostro punto di vista. E non possiamo aspettare che, ogni volta per cambiare le cose, succeda una tragedia o si finisca sui giornali. Il potere delle storie è molto importante, può farti appassionare a un personaggio o a un argomento o fartela rivivere, quindi, farti ridere e commuovere, ed è come se stesse accadendo accanto a te. Questo è sicuramente un potere che esiste in tutte le rappresentazioni, in quelle letterarie e con forza ed efficacia delle immagini, anche in quelle televisive e in quelle cinematografiche. Spesso mi viene chiesto il perché nelle mie storie ci sono omosessuali, emarginati e donne che lavorano. Domande a cui io rispondo di non guardate alle storie o alle narrazioni in cui questi personaggi ci sono, ma cominciate a monitorare tutte quelle volte in cui si racconta la società senza questi personaggi, perché vuol dire che stiamo facendo un lavoro di esclusione, ed escludere dalla rappresentazione significa discriminare».
In qualità di scrittore e sceneggiatore quanto è importante curare le parole nel trattare temi come quelli affrontati in Un Bacio?
«Le parole sono molto importanti, soprattutto la ricerca di quelle giuste. Quando si parla di bullismo e omofobia chiediamo ai ragazzi delle scuole di avere coraggio e non paura. Abbiamo fatto anche una campagna insieme al telefono azzurro rispetto all’idea di eliminare la vergogna e l’imbarazzo. La vergogna che prova un ragazzo bullizzato. Le parole che usano gli adulti sono molto importanti e tristemente gli insulti più usati dagli adolescenti sono quelli che arrivano dal mondo degli adulti, insulti discriminanti che loro trovano nella società degli adulti. Nel film Un Bacio questo è molto presente. C’è un discorso che a me piace molto, in cui Renato, il padre del ragazzo gay, Lorenzi, parla di tolleranza con la preside della scuola: “mio figlio non deve essere tollerato deve essere accettato”, un concetto molto diverso. Ecco queste parole sono importanti, la differenza tra la tolleranza che indica una sopportazione e un’accettazione velata di malcontento e l’accettazione vera. L’inclusione è molto importante da parte di tutti, sia di chi si occupa delle rappresentazioni e sia di chi si occupa del racconto, di quello che succede, come voi giornalisti, dovremmo stare tutti un po’ più attenti alle parole».
Progetti futuri?
Ci sarà “Sirene”, che sta per partire. Stiamo lavorando con Monica Rametta e Stefano Bisio per la seconda stagione di “È arrivata la felicità”, una serie che abbiamo scritto per Rai Uno. Nel frattempo sto pensando anche alla prossima regia. Spero di poter avere un’idea per una storia che riguarda ancora il mondo dei ragazzi, perché mi sono molto divertito ed ho molto apprezzato lavorare con loro».