Di questi tempi è l’album di esordio di Evocante, uscito il 28 febbraio 2022. È un disco nuovo, sperimentale che coniuga sapientemente sonorità rock e cantautorato in un mix intrigante e di impatto. Nove le tracce: Raccontami di te, In piazza, Di questi tempi, Io contro tutti, Non c’è più tempo, Persongente, Salvami, L’ultima volta, L’ascensore blu (strumentale). Fil rouge dell’album sono alcune riflessioni sull’attualità, sui tempi che viviamo tra la finzione dei social e l’azzeramento dei rapporti interpersonali in una corsa affannata e senza senso favorita dall’informatiche che però rende le nostre esistenze vuote e vittime della religione del fatturato, come afferma Evocante.
Ma chi è questo nuovo cantautore che si cela attraverso lo pseudonimo di Evocante? Il suo vero nome è Vincenzo Greco, nato a Vibo Valentia ma sempre vissuto a Roma. È un docente LUISS che fa musica da oltre 30 anni e che solo ora si è deciso a pubblicare qualcosa di più serio e di definito. Ha prodotto e pubblicato come regista il docufilm ‘E ‘nci facimu a facci tanta–Una reazione Vibonese sulla trionfante stagione 2017/18 dell’omonima squadra di calcio della sua città di origine, con musiche originali sue. È collaboratore e opinionista di TMW radio-RBN dove conduce tre rubriche fisse. Ha realizzato dei videomusiracconti ovvero dei lungometraggi rappresentati su schermo con musica dal vivo dal titolo Solo cose belle e LiberAzione , quest’ultimo girato interamente in Islanda. Ha un profilo YouTube dove inserisce suoi brani e cover del Battiato meno noto e dei C.S.I. in due plylist aperte e soggette a periodici aggiornamenti: Il mio Battiato e Il mio Ko del Mondo.
Evocante si diverte anche a preparare arrangiamenti nel gruppo dei Blefuscu e a partecipare insieme ad un gruppo di musicisti :Luigi Feldmann, Luca Silvestri e Barbara Vanorio a concerti dal vivo per eseguire i brani dell’album Di questi tempi.
Noi di Mydreams abbiamo avuto il piacere di intervistarlo.
Cosa spinge uno stimato docente della LUISS ad intraprendere la carriera di cantautore e a farsi conoscere dal grande pubblico?
«Pur essendo due attività molto diverse tra loro, c’è una cosa che unisce l’insegnamento e la creazione di canzoni: la passione per la ricerca, per il domandare e per cercare, tra le pieghe di una domanda, possibili risposte. Non è un caso che io, a livello accademico, mi sia sempre occupato di novità, di temi ancora non affrontati, che erano solo emergenti, e dei quali poco si sapeva. Pensa che nel campo da dove sono partito, che è quello della Filosofia del diritto, mi sono occupato di bioetica prenatale, quando già la sola parola non era granché conosciuta, poi di interpretazione evolutiva, tema studiato da pochissimi, scrivendo un libro in cui dimostro come i giudici, quando decidono, lo fanno in virtù dei tempi in cui vivono. La stessa cosa sta accadendo nel settore dove ora sono approdato, che è lo studio dei fenomeni digitali e relative implicazioni giuridiche, sociali e psicologiche, dove ho creato quasi da zero una serie di lezioni su opportunità e pericoli, anche giuridici, dei social network, dalla circolazione di fake news e complottismi vari alle diffamazioni on line alla sovraesposizione delle persone. É curioso che l’album Di questi tempi sia nato proprio facendo lezioni all’Università, perché tanti sono i riferimenti a queste tematiche. Io, insomma, faccio musica allo stesso modo di come faccio ricerca e insegno: unendo sperimentazione e ricerca di un linguaggio comprensibile da tutti su tematiche di una certa profondità, sulle quali ogni persona matura non può non porsi certe domande».
Perché ha scelto lo pseudonimo Evocante? Cosa evoca la sua musica o il suo modo di fare musica?
Innanzitutto, diamoci del tu, non vorrai mica farmi sentire uno di quei vecchi tromboni accademici alla ricerca di riverenze e onori (ride). Evocante nasce da una distinzione, che lessi su un libro, non a caso di Filosofia, tra nomi numerici, che non trasmettono nulla di più di quello che dicono (quattro cosa dice più di quattro?) e nomi evocanti, che invece, proprio per il loro potere evocativo, sono in grado di trasmettere molto più della semplice parola che dicono. Pensa, tanto per fare un esempio, a quante cose ci fa venire in mente una parola come “orizzonte”. La mia musica e i miei testi sono costruiti proprio con questa attitudine a evocare qualcosa in chi li ascolta. Cosa, lo deve dire l’ascoltatore. Io, e in questo il lato musicale e certe atmosfere sospese e psichedeliche che spesso mi piace creare, fungo solo da tramite: metto l’ascoltatore in condizione di evocare qualcosa, di sognare, di ricordare, di immaginare, anche di progettare e intuire. Nell’album Di questi tempi le canzoni costruite così sono Raccontami di te, Salvami, L’ultima volta, L’ascensore blu, ma anche fuori da questo album ci sono tanti miei brani, che pubblicherò ufficialmente, e che si trovano da tempo sul mio canale YouTube, piene di rimandi evocanti: Dialettico, Sette minuti di sonno, Chiarificazione. Tutti brani che faranno parte della scaletta live».
Ci puoi spiegare il tuo forte interesse per Franco Battiato?
«É la storia d’amore musicale più lunga e ininterrotta della mia vita. Avevo undici anni, con la mia famiglia eravamo in viaggio in macchina verso Milano e in un autogrill acquistai la musicassetta de “La voce del Padrone”. Ricordo che la cassiera si complimentò con mia madre per l’acquisto del figlio, così piccolo eppure già così incuriosito da certi autori. Quell’estate credo di avere ascoltato quell’album, non esagero, almeno sei volte al giorno (era breve). Senza mai annoiarmi perché ad ogni ascolto scoprivo suoni nuovi. E poi, quei testi, così diversi dal solito, mi hanno accompagnato in ogni momento. Fino al sogno premonitore e rivelatore che ebbi la notte della sua morte, il 18 maggio 2021, fatto di una esperienza di grande serenità e nascita/rinascita. Scoprii poi che molti altri suoi fan quella notte fecero sogni particolari, un po’ come quando ti muore un parente stretto. Segno di un legame fortissimo. Battiato, che ho seguito in ogni sua evoluzione, dall’opera alla musica sacra al cinema alla pittura, è stato il mio principale punto di riferimento artistico proprio per questa curiosità forte che aveva, che lo ha portato a sperimentare, a non adagiarsi mai sugli allori del successo di vendite, a cercare sempre non semplicemente di cambiare, ma proprio di evolversi. E, cosa da non sottovalutare, aveva anche una forte carica, come dire, didattica, perché rendeva il suo pubblico partecipe delle sue letture e dei suoi viaggi tra filosofie, religioni e studi su autori musicali del passato. Su di lui stavo scrivendo un libro, che momentaneamente ho sospeso per non aggiungermi anche io al profluvio di pubblicazioni e omaggi avvenuti post mortem, non tutti sinceri, a dire il vero. Lo finirò, con un taglio diverso da quello inizialmente concepito, e per farlo mi sono anche addentrato musicalmente dentro alcuni suoi brani meno conosciuti, quelli più sperimentali e rarefatti, rifacendoli e inserendoli in una playlist aperta sul mio profilo YouTube (Evocante-Vincenzo Greco), intitolata “Il mio Battiato”. Non lo faccio certo per aggiungermi alla marea di cover che si stanno producendo su di lui, ma per vivere meglio la sua musica, viverla direttamente, per poterne poi, in un libro dal taglio inedito, raccontare meglio le dinamiche e le pieghe. Ricordo che registrai “Il re del mondo”, proprio nei giorni successivi alla sua morte, a seguito di una esperienza molto forte in cui, un pomeriggio in cui sentii chiaramente qualcuno (secondo me, mio padre, andato via qualche anno fa, grande esperto di musica) toccarmi alle spalle in un momento in cui non c’era nessuno nella mia stanza. In quella incisione si sente la mia voce commossa e rotta dall’emozione: l’ho volutamente lasciata così, con un finale in cui riprendo l’aria finale della sua prima opera lirica, Genesi, che vorrei molto qualcuno potesse riportare dal vivo».
Trovi delle affinità tra la sua musica e quella del compianto cantautore siciliano?
Chiunque ascolta un mio brano, anche senza conoscere nulla di me, il primo nome che fa è quello di Battiato (e poi di Giovanni Lindo Ferretti: pensa che bella compagnia!!). É un paragone che indubbiamente mi fa molto piacere, ma mi imbarazza anche, ed è pericoloso perché inevitabilmente crea aspettative che poi potrebbero rimanere deluse. Allora, mettiamola così. Chi cerca in me, come in chiunque altro, un nuovo Battiato sbaglierebbe perché un nuovo Battiato, data la sua unicità, non esisterà mai più. Però qualcuno, e tra questi posso iscrivermi anche io, può portare avanti il suo approccio all’arte, alla musica, alla ricerca, nascenti da un comune sentire e da una comune sensibilità. Per uscire dall’impasse del paragone ingombrante a me piace dire, in casi come questi, che io sono un orfano di Battiato (come dei CSI e dei CCCP, se per questo, e pure un po’ Fossati, ognuno per motivi diversi) e che con le mie canzoni mi piacerebbe far sentire un po’ meno soli altri orfani come me. In particolare, credo di aver preso da Battiato una certa sonorità, quella che io chiamo musica ferma, che ritroviamo spesso in suoi pezzi di musica sacra, ma anche nell’ambito di certe canzoni come ad esempio nel finale di Stati di gioia. Nel mio caso, la chiamo musica sospesa. E poi il gusto di dare aria alle canzoni, non comprimerle in arrangiamenti chiusi e ristretti, ma farle respirare attraverso riff, anche orchestrali, unendo la così detta orecchiabilità alla complessità armonica. Da Battiato ho imparato anche che non c’è un genere musicale, come non c’è una distinzione tra musica classica e leggera, ma vari modi di esprimersi in un unico linguaggio che è quello musicale. E non solo. Lui si è espresso anche nel cinema. E io, nel mio piccolissimo, ho realizzato un docufilm su una stagione calcistica della mia città d’origine, intitolato “E nci ficimu a facci tanta – Una reazione Vibonese”. Insomma, l’arte può esprimersi in tanti modi, l’importante è avere qualcosa da dire ed essere sinceri. Le bugie artistiche potranno rendere molto nel breve periodo, ma nel medio periodo vengono smascherate. E Battiato mi ha insegnato proprio l’indipendenza nel saper osare e la sincerità».
Ci puoi raccontare brevemente la genesi dell’album?
«Osservando la gran totalità delle canzoni che vengono ora proposte, mi sono accorto che quasi tutti, tranne poche lampanti eccezioni, sono ripiegati nel loro privato, raccontano le loro tristezze o felicità riguardanti le loro vite, le loro storie d’amore, al massimo il rapporto con gli amici. In pochi si sono presi la briga di raccontare i tempi che stiamo vivendo, come invece si faceva tempo fa, un esempio su tutti Roger Waters con i suoi Pink Floyd con quel capolavoro che è The dark side of the moon, per me fonte continua di ispirazione (tutto il discorso sul tempo e sulla corsa a perdifiato l’ho preso da lì). E allora, recuperando, in assoluta controtendenza con quanto avviene oggi, l’idea del concept album, ho deciso di fare un intero album in cui affrontare, da più visuali, alcuni dettagli dei tempi che viviamo. Musicalmente non poteva che essere un album rock, ma gli ho dato anche altri respiri, all’inizio e alla fine, per contrasto: un grido di dolore può essere urlato ma anche detto sottovoce. E a volte è più incisivo e drammatico il sussurro, come ho cercato di fare in Salvami».
Quali sono, secondo te, gli aspetti positivi e quelli negativi dei nostri tempi?
«Non c’è una cosa buona e una cattiva in se’. É l’utilizzo delle cose che fa la differenza. Una stessa cosa, prendiamo ad esempio l’estrema velocità con cui corrono le informazioni, ha indubbi aspetti positivi ma può averli negativi nel momento in cui tali informazioni sono false, e nessuna smentita avrà mai la capacità di contrastarle. La possibilità di entrare in contatto con una platea sconfinata di persone è una cosa buona in se’: ma se tutto questo deve portare a esibizionismi grotteschi, ad autoreferenzialità ridicole, a far vedere agli altri ciò che non siamo, a dare di noi un aspetto solo esteriore, e niente che riguardi noi nel profondo, ecco che tutto diventa negativo. Noi, distratti dal dover dimostrare opulenze o lamenti o polemiche su tutto, e dare infinite risposte, spesso neppure richieste, senza farci domande, ci stiamo sempre più disabituando alle cose più importanti. Ad esempio, a dirci come stiamo veramente: quante volte al telefono o incontrando una persona esordiamo con un convenevole e di prammatica “come stai” e non diamo tempo neppure per fare accennare una risposta? E poi, anche qui complice l’informatica – che non ha colpa, essendo solo uno strumento in mano nostra – ci stiamo disabituando alla memoria, stiamo delegando qualcun altro, i particolare i motori di ricerca e gli algoritmi, a ricordare per noi, e quindi anche a selezionare ciò che va ricordato da ciò che si può, e a volte addirittura si deve dimenticare. Questa è una cosa pericolosissima. Perché noi, privati della memoria, non siamo più esseri umani ma solo un groviglio di cose da fare all’istante».
L’album è composto da 9 brani. Quali fra queste ha richiesto uno sforzo compositivo maggiore? A quali di essi ti senti più legato e perché?
«Lo sforzo maggiore, anzi più particolare, l’ha richiesto Di questi tempi, canzone che da il titolo all’album. Il racconto di come si è generata è divertente. Ero partito da un mio tentativo – di quelle cose sperimentali che ogni tanto mi piace fare – di unire al suono derivante da due campane tibetane sfregate con l’apposito bastoncino una sonorità tratta dal mio sintetizzatore settandola sulla stessa lunghezza d’onda della campana. Mia moglie sente di sfuggita dall’altra stanza questi esperimenti e mi dice che le ricorda più che altro il suono di un frullino che si sta scaricando. Ed era vero. Però quello era solo l’inizio, perché poi la canzone è diventata tutt’altro, anche se all’inizio, se si fa attenzione, si sente lo sfrigolio delle campane e persino l’effetto frullatore lento acquista un senso con le parole, non certo leggere, che compongono la canzone. Sono legato a tutte le canzoni, ma di più a Salvami, scritta a neppure 18 anni e recuperata senza cambiare nulla, e la cosa mi fa tanta tenerezza, e a Io contro tutti, un grido di disperata solitudine intellettuale, con riferimenti indiretti a Pasolini, che dal vivo acquisisce sempre un forte impatto emotivo non facile da sostenere. Mentre l’ultima volta rappresenta una sorta di “auto profezia” che ora ti racconto. Ho scritto questa canzone dopo una diagnosi un po’ troppo preoccupata ed estrema di un medico. In uno stato un po’ malinconico, quasi da testamento, scrissi i primi versi, pensando potessero essere quelli della mia ultima canzone. Poi però ho chiuso la canzone con riferimenti molto più positivi – non è un caso anche che cambi l’effetto da sottofondo alla voce – dicendo che tutte le ultime volte che sembrano tali poi non lo sono, perché c’è altro che ci attende. E infatti, chiariti i dubbi di quel medico troppo allarmista, mi hanno atteso la pubblicazione dell’album, decisa proprio in quei giorni, e le prime prove con il gruppo, all’inizio eravamo solo io e il batterista, Luigi Feldman, poi si sono aggiunti una bassista, Barbara Vanorio, e un chitarrista elettrico, Luca Silvestri. La cosa bella, che purtroppo non accade spesso quando si fa musica, è che è diventato presto anche un gruppo di amici in sintonia che si divertono e ridono molto, in giusta contrapposizione al tenore dei brani».
Come pensi di promuovere l’album? Ci puoi anticipare qualche data del tour?
«Lo suoneremo, con arrangiamenti ancora più rock con tocchi qui e là di divertita psichedelia, in vari locali e clubs, e anche all’aperto. Le date, che sono in via di definizione, una volta confermate le troverete sui miei profili “Evocante” Facebook, Instagram e Twitter, e sulla pagina Evocante su rockit, sito che mi ha dato molto spazio, anche “video fotografico”, oltre che una bella recensione. Insomma, ci vedremo in giro, e sarà un’esperienza di contatto empatico, perché io con il pubblico tendo molto a divertirmi e scherzare, anche per non prendermi troppo sul serio, che è la via migliore per non risultare noiosi e ridicoli».