Continua il successo del Tornano Sempre tour 2018 che Angela Baraldi sta portando in giro per l’Italia accompagnata dalla magica chitarra di Federico Fantuz. Un live acustico in cui la cantante e attrice propone il suo ultimo album Tornano Sempre (Woodworm Label 2017) con il suo rock puro con incursioni new wave ricco di armonie, i suoi testi intricati e intriganti e con la sua voce ardente e rabbiosa costruisce sontuosi paesaggi sonori, in cui i suoi cromosomi artistici XX e XY si confondono e si alternano creando un disco straordinario ed emozionale. In questo periodo è anche impegnata sul set della nuova fiction ideata da Ivan Cotroneo, La Compagnia del Cigno, prodotta da Indigo Film e Rai Fiction, che prevede dodici episodi e ruoterà intorno agli studenti del conservatorio Giuseppe Verdi di Milano in cui Angela Baraldi sarà la loro insegnante di pianoforte. Abbiamo incontrato Angela Baraldi prima del suo live al Controverso di Scafati (Salerno).
In “Tornano sempre” ci sono diversi temi ed è difficile da riassumere, ma ti chiedo lo stesso se ha un messaggio particolare che vuoi che passi…
«Il mio modo di scrivere non è legato all’intelletto, ma all’istinto e non avevo assolutamente idea di cosa parlare, a volte i testi vengono fuori tipo quando fai un sogno. Comincio a capire il disco una volta uscito e che lo ascoltano gli altri e gli danno una forma, finché non esce, non capisco neanche se è valido. Quando comincio a sentirlo tutto di fila, mi lascio anch’io sorprendere, mi piace farmi emozionare. Non c’è mai un’intenzione di volere scrivere qualcosa di preciso, forse Hollywood Babilonia è l’unico pezzo del disco con un pensiero strutturato, parlare di personaggi del Novecento che fanno parte del nostro inconscio collettivo ribaltati.»
Hai voluto rapportarli ai pseudo artisti che oggi si vedono in tv?
«Non ho scritto con quell’intenzione, ma non rifiuto la lettura di qualsiasi tipo, mi sono fatta semplicemente emozionare dal famosissimo libro di Kenneth Anger, Hollywood Babilonia, che racconta il lato B di figure abbastanza rassicuranti, a parte Lolita, una ragazzina che ha fatto diventare canuto Charlie Chaplin, la famosa Lita Grey che interpretò da piccola l’angioletto nel suo film Il Monello e che poi Lolita sposò intorno ai sedici anni, con una madre che aveva programmato tutto.»
Hai trovato qualche affinità in questo libro con la tua vita di artista?
«No, è solo una curiosità umana. Non mi sono posta il problema di dire qualcosa che possa avere avuto attinenza con la mia vita artistica.»
I fan o i semplici curiosi ti chiedono di spiegare i tuoi testi e le storie che ruotano intorno a essi?
«Mi lascio anche spiegare da loro. Quante belle letture dei testi sono venute fuori nelle interviste, con le quali sono d’accordo. Il testo mi appartiene dal momento che lo scrivo e una volta che la canzone è finita, è una grande magia lasciarla andare con le sue gambe. Non ho mai fatto un concept album, però quest’album scritto in un tempo molto lungo, perché ho fatto molti concerti negli ultimi cinque sei anni, ha un filo conduttore più coerente di altri album.»
Quando hai cominciato a scrivere canzoni?
«È stato Lucio Dalla a convincermi a scrivere. Dopo aver fatto un provino per Ron, firmai un contratto con la RCA, perché non c’erano voci femminili “nuove” nella seconda metà degli anni ottanta, anche se c’erano artiste importanti, ma non avevo un repertorio che mi soddisfava, c’erano molte canzoni d’amore tristi, dove lei era abbandonata e cose così, e dicevo, ma perché non mi fate cantare una canzone dove li manda a f******.»
Hai avuto un bel rapporto con Lucio Dalla?
«Con Lucio eravamo molto vicini, in quel periodo lui si prese cura di me che ero sbandata ed ero uscita da un periodo piuttosto sconvolto dalla mia vita. Abbiamo discusso tante volte, due generazioni a confronto molto distanti, la mia natura mi porta a essere autonoma e abbiamo fatto fatica, entrambi, a fare il primo disco che ha prodotto Lucio con Bruno Mariani. Io avevo già la malattia di Patty Smith per cui m’interessava molto il rock’n’roll e un suono asciutto, ruvido, minimale, però non c’era terreno. Quando è uscita Alanis Morissette, dieci anni dopo, che ha venduto molti dischi con le chitarre elettriche, dopo bisognava per forza mettere chitarre elettriche. Le case madri delle multinazionali italiane erano all’estero e loro avevano bisogno di un precedente che avesse funzionato, forse i cantautori sono stati l’invenzione coraggiosa delle case discografiche italiane, tipo Dalla, De Gregori, etc.»
Tu hai iniziato a scrivere ma c’è stata molta difficoltà per importi con la tua scrittura e la tua musica?
«È stata una difficoltà in generale, non mi sentivo inquadrata in quella situazione così precisa e mainstream. Principalmente era vendere dischi, magari nella fine degli anni ottanta, in Italia, fare un disco rock’n’roll era inconcepibile, le radio non l’avrebbero passato.»
C’è anche da dire, però, che alla fine degli anni ottanta anche alcuni cantautori hanno avuto un declino, quindi, era difficile imporsi come cantautrice rock…
«Sono stata molto influenzata dalla musica degli ultimi tre anni degli anni settanta, dai quattordici ai sedici anni, in cui Bologna era una città molto aggiornata musicalmente, molte band da New York, soprattutto new wave, venivano a suonare a Bologna e non a Milano o Roma. Tutte le settimane, quindi, andavo a vedere concerti e sono cresciuta con quella musica ed è stato il mio background, quella che mi sono scelta autonomamente, perché per alcuni anni ho subito le scelte musicali dei miei fratelli che compravano dischi tipo Neil Young, Battisti e Dalla, che erano gli unici cantautori italiani che sono entrati in casa mia, quando sono stata autonoma, ho sposato quel tipo di musica, più selvatica. Io mi sento selvatica e ho capito che sono selvatica, adesso.»
In Tornano sempre dici “Tornano sempre e il più delle volte mentre io me ne sto andando via!” la legge di Murphy perseguita anche te come me?
«Tu hai dato una lettura di “Tornano sempre” che mi piace, perché vedi l’esclusione come qualcosa che dici, Peccato! Io, invece, l’ho vissuta proprio come scelta, però c’è anche quel lato lì che uno si sente escluso dalla vita degli altri, non hai dato una lettura pessimistica ma empatica. Tornano sempre è riconducibile al mio lavoro, noi cantanti usciamo da casa quando gli altri rientrano, lavoriamo quando gli altri staccano, nei weekend siamo in giro a suonare, andiamo a letto mentre gli altri si svegliano per andare a lavorare. Sempre controcorrente, tutti i miei compleanni li perdo e nel momento che gli altri si rilassano io sono in camerino che mi sto preparando, sento proprio che gli altri hanno finito di lavorare e vengono a vedere il concerto a teatro e si stanno rilassando, mentre è il tuo momento e devi dare il massimo e poi ho anche la voglia di raccontare la visione di un outsider che vede il mondo così.»
È difficile essere un outsider oggi, quando tutti sono omologati e seguono la scia dei social…
«C’è più gusto a essere un outsider!»
C’è una linea sottile nel processo di editing, che sarà esaminata, quindi se tu scrivi una canzone, i fan e i curiosi la giudicano. Tu hai paura dei giudizi su quello che hai scritto?
«Li ho avuti in passato, non ti so dire cosa è successo, ma non ho più questa paura. In questi ultimi anni, suonare dal vivo a fianco di persone che reputo importanti musicalmente per quello che hanno dato e fatto, in primis il produttore Giorgio Canali, persone che non si sono mai messe in cattedra a insegnare, ma semplicemente frequentandole ho assorbito delle cose e ho cercato di prendere il meglio da tutti e, quella paura del giudizio, penso sia una cosa sia inibisce molto, però mi è passata e ora riesco a misurarmi. Se sono autonoma, se non dipendo da una situazione, allora, riesco a dare un valore alle cose che faccio. Se sono a traino di qualcuno o di qualcosa, mi confondo, per cui vado alla continua ricerca dell’autonomia. Più sono autonoma e più sento di essere padrona di quello che faccio e più mi distacco dal giudizio degli altri.»
Cosa ne pensi che dopo la morte di Lucio Dalla si sia alzato il polverone sulla sua omosessualità…
«Faccio un po’ fatica a parlare di questo, capisco perché Lucio non ha fatto outing, era una persona particolarmente complessa, c’è una sua intervista del ’79 che consiglio di leggere dove spiega il perché non si è mai schierato. È una specie di libertà anche sua, lui non era solo omosessuale ma ha avuto anche delle donne, ha avuto degli amori, s’innamorava anche degli amici. S’innamorava senza aver bisogno di una relazione sessuale, passionale, s’innamorava delle persone e aveva un concetto di famiglia allargato all’affettività e al lavoro, che per lui andavano di pari passo. Lucio aveva una sua famiglia di persone rimaste tutte orfane quando lui è morto, non solo Marco, ma tanti amici, con i quali lavorava da anni e con cui aveva vissuto tutta la vita si sono trovati senza lavoro, erano appoggiati, riversati su di lui. Il suo esempio affettivo mi ha molto influenzato perché anch’io sono un po’ così, lui me lo diceva “noi siamo simili” ed è vero, rifuggo un po’ la famiglia convenzionale, mi fa un po’ orrore e ciò ti dà un taglio particolare nel metterti nel mondo, non desiderare ciò che invece tutti desiderano, una famiglia. Io e Lucio ci assomigliavamo molto e trovavo il suo non dichiararsi non un fatto meschino o di paura o cattolico, ma qualcosa che somiglia alla sua persona.»
È stato invece meschino chi ha voluto parlarne dopo la sua morte…
«Ho trovato fuori luogo quest’attacco dopo la sua morte, perché non gliel’hanno chiesto in vita? Perché si aspetta che muoia, quando tutti possono parlare e dire quello che vogliono. Lucio era una persona molto raffinata, complessa e sfaccettata, aveva un modo riservato di trattare quest’argomento e nello stesso tempo era molto libero. Lucio era “anche omosessuale”, ma so che ha avuto delle donne nella sua vita, ma parlare di bisessualità sembra meno interessante, mentre io credo che dovrebbe essere la condizione naturale dell’essere umano. Siamo tutti bisessuali, bisognerebbe nascere e crescere già dalle scuole elementari con questo concetto, quindi non dovrebbe esistere la religione, perché non lo consente, però se noi crescessimo con quest’apertura, non avremo più bisogno di schierarci con questo o con quello, un’utopia ma sono sicura che i bambini non abbiano nessun problema ad assorbire questo concetto. Nella mia adolescenza ho amato delle donne, delle ragazzine un po’ più grandi di me, volevo essere come loro, però le femmine hanno meno paura di questo, sono i maschi che hanno più paura, poi il maschio italiano è stupido per il fatto di aver paura di essere omosessuale, questa cosa la trovo ridicola.»
Cosa succederà dopo questo tour per Angela Baraldi?
«Sto girando una serie con Ivan Cotroneo che si chiama Compagnia del Cigno, giriamo tra Milano e Roma, ambientata nel conservatorio Verdi di Milano con protagonisti sette adolescenti che suonano veramente ed io sono un insegnante di pianoforte.»
Come ti sei avvicinata al mondo della tv e del cinema?
«Non voglio sembrare spocchiosa, ma mi è capitato, il primo film che ho girato è stato con Giacomo Campiotti, il regista dei miei primi video, mi trovò molto adatta alla cinepresa e mi chiamò a fare una parte. Ho continuato a fare la cantante e i concerti, però si era aperta una porta. Avevo fatto l’Accademia di Arte Drammatica, studiato dizione etc., ed ero molto concentrata sulla musica. Nel 2004 Gabriele Salvatores mi chiese di fare un personaggio abbastanza simile a me, un’ex musicista, erano circa quattro anni che non suonavo più, l’età, di Bologna, una serie di cose che combaciavano e feci un provino abbastanza pesante, era un monologo molto lungo e mi chiese di farlo in due modi diversi, con il chiodo mentre fumavo e incazzata e un’altra vestita da femmina con gli orecchini e tutta dolce.»
Una bellissima parte da protagonista in Quo vadis, baby?, film e mini serie di Salvatores…
«È una storia particolare, di solito gli attori per avere una parte come protagonista fanno un sacco di gavetta. È un lavoro molto difficile quello dell’attore non quando lavori ma nel privato, se sei scartato a un provino, ti senti quasi rifiutato fisicamente. L’attore che non lavora è molto frustrato, perché dipende dal regista e l’attore dipende dal progetto, almeno che non c’è qualcuno che scrive da solo e sono pochissimi quello che lo fanno.»