Napoli, la sua cultura. L’arte tra luci e ombre, il suo destino e la rinascita. Di questi argomenti ne abbiamo parlato con il Maestro Mariano Bauduin, musicista, regista, e fondatore del The Beggars’ Theatre.
Maestro Bauduin, lei è regista teatrale, musicista, direttore d’orchestra, organizzatore di eventi artistici, direttore artistico, e fondatore di “The Beggars’ Theatre – Il teatro dei mendicanti”, riesce a fare tutto?
«Credo che quando si è mossi da uno spirito creativo, e c’è l’esigenza di poter dire qualcosa, si trovano i canali più adatti e pertinenti».
Lei è stato uno stretto collaboratore del Maestro Roberto De Simone, cosa ha attinto dalla sua esperienza artistica?
«Con il Maestro De Simone è stata una scuola che è durata più di 25 anni. L’esperienza è stata importante perché il Maestro mi ha insegnato il rispetto per la cultura e per l’identità culturale che ognuno di noi si identifica nel luogo in cui vive e nasce. D’Altronde se Pirandello non fosse nato ad Agrigento, non avrebbe scritto “Sei personaggi in cerca di autore”, magari avrebbe composto un’altra storia, proprio perché i luoghi identificano le nostre identità. È anche vero che le nostre identità non devono essere delle limitazioni, ma degli occhiali per osservare la cultura e l’arte del teatro per andare oltre. Questa è stata sicuramente la lezione più importante che De Simone mi ha trasmesso».
Ormai è diventato un affermato regista, ha diretto diverse opere liriche, tanto per citarne alcune: Don Pasquale di Donizetti, Il Matrimonio Segreto di Cimarosa, Attila e Aida di Verdi, e tra non molto lavorerà per la messa in scena del Ratto del serraglio di Mozart a Bilbao. Ho notato però, che gran parte delle rappresentazioni che ha diretto, poche o, forse nessuna, è stata rappresentata a Napoli, vuole spiegarmi il motivo?
«Potremmo dire proprio nessuna, nel senso che ormai sono estremamente cosciente del fatto che Napoli e la Campania hanno radicato un vecchio sistema di appartenenza a gruppi “familiari”, e soltanto a loro è consentito attingere risorse pubbliche. Mi lamento proprio perché stiamo parlando di risorse pubbliche. In passato ho avuto una lunga collaborazione con il teatro San Carlo, con due contratti cancellati a causa della pandemia e mai recuperati. Io sono l’unico regista della mia generazione, campano, che non ha messo piede al Mercadante nonostante negli ultimi dieci anni abbia presentato ben 22 proposte tutte respinte. Per questo avevo deciso di chiudermi nel teatro di periferia facendo un teatro libero da ogni potere. Ma anche quella esperienza si è conclusa. Inoltre, avrei dovuto rappresentare Pasolini, un’opera che da realizzare nel 2023 per il centenario della sua nascita, ma a un certo punto si è deciso di non organizzare più lo spettacolo. Fatto sta, che oggi riesco a collaborare con il direttore artistico di Bilbao, proponendo un’opera e riuscire a realizzarla, cosa che non è ancora avvenuto a Napoli».
Oltre a essere impegnato artisticamente, è molto interessato ai problemi sociali, con particolare attenzione alle fasce deboli dei quartieri popolari di Napoli. Da questo interessamento è nato “The Beggars’ Theatre – Il teatro dei mendicanti”, cosa ha significato per lei, e cosa le ha dato questa esperienza?
«Mi è rimasta una nostalgia pazzesca perché ero in un luogo dove riuscivo a trovare una libertà espressiva nonostante i mezzi non erano pubblici. Andavo avanti con i miei guadagni di professionista e spendevo per il teatro. Quell’esperienza ha dimostrato che l’arte non è classista, ma è aristocratica. Mi spiego: è possibile comunicare anche a strati sociali disagiati, con pochi strumenti culturali, e funziona quando si lavora con onestà dell’interlocutore nei confronti dell’ascoltatore di qualsiasi classe sociale, perché sa di ricevere qualcosa di importante. A San Giovanni avevo trovato una comunità di “aristocratici”, gente analfamusica, analfabeta, se vogliamo, però in grado di capire Mozart, di cantarlo e di recitarlo con onestà. Il motivo era che San Giovanni non si basava su dei codici elitari o escludenti, ma da codici universali, del popolo e da lui percepito. Ciò vuol dire che certi retaggi arrivano a tutti, ma per veicolarli, ci vuole una grande onestà intellettuale».
Le esperienze sociali che ha creato sono chiuse in uno scantinato, pensa di ridarle vita e luce, o si è arreso?
«Mi piacerebbe tanto sognarlo, però, come diceva Pasolini, “Io non ho fiducia nella speranza”. La speranza è pericolosa, non bisogna avere speranza, perché poi con la speranza si giustificano tante cose e tanti equivoci. Non bisogna sperare, però si deve urlare quando le cose non vanno bene. Se dovessi citare un altro insegnamento di De Simone, sicuramente sarebbe quello di non stare zitti. Il The Beggars’ Theatre non riaprirà più, non perché non si possa fare, ma perché non serve; non serve perché non è una vetrina per i politici, quindi non risponde a determinate esigenze. Il The Beggars’ Theatre è importante, è utile, ma non serve. Questa è la contraddizione dei nostri tempi, e il materiale che sta marcendo in un deposito, continuerà a marcire».
Se la sente di tracciare un ritratto della sua città?
«Napoli è una città in ostaggio. Ostaggio di un sistema che dovendo riempire le cedole per accedere ai fondi ministeriali, maschera la cattiva volontà di investire sui giovani, a tentare progetti avveniristici, dare possibilità a chiunque di esprimersi secondo i propri linguaggi e le proprie scelte poetiche. Purtroppo, culturalmente Napoli non ha un progetto».
Ormai è un artista d’eccellenza, si è fatto strada grazie alle sue competenze, alle esperienze e alla tenacia che la contraddistingue, ma non crede di rivivere un’esperienza analoga a quella del maestro De Simone? Perché, secondo lei Napoli non salvaguardia i suoi “figli”? Perché molti artisti lasciano Napoli?
«Il Parallelismo con il Maestro De Simone mi viene in mente perché è vero, ci sono parecchie analogie, sembra quasi che erediti la sua condanna. Forse perché noi viviamo di manie di persecuzione, è una cosa che non so, non vorrei nemmeno sembrare troppo vittima. Alla fine seppur mi dispiaccio, vado avanti. La storia di Roberto è sicuramente triste perché è stato trattato veramente male dal sistema di cui parlavo prima, e che già c’era ai suoi tempi. L’idea che avanzo è che Roberto ha tante ragioni, ma pure qualche pecca, che è anche stata la base della mia volontà a prendere altre strade. Il fatto è che Roberto è una persona che tendenzialmente tende a isolarsi, e ritirarsi in silenzio mantenendo il suo modo di pensare. Io credo all’esatto contrario, che sia fondamentale la partecipazione, cercare di stare insieme il più possibile e denunciare. Detto ciò, voglio essere speranzoso, anche se, come ho detto, la speranza non mi piace, ma credo che le cose stanno cominciando a cambiare. Si sa, l’isolamento non aiuta. L’isolamento è l’arma che usa il potere per far finta di non sentire e non vedere».
Una volta Eduardo De Filippo disse ai giovani artisti napoletani: “Fuitevenne”, Lei cosa consiglierebbe a un giovane artista?
«Direi: restate a Napoli, ma non state zitti».
Ci sono date o progetti futuri per Napoli?
«Mi piacerebbe molto realizzare il progetto: “700’ napoletano”. Un progetto non solo di musica, ma anche di prosa. Far conoscere ai giovani i personaggi e la storia artistica napoletana. Io sono disponibile a farlo gratuitamente, come già proposto al teatro Mercadante. Sono 10 anni che lo propongo, ma al momento, nessuna risposta».