Diventi famosa per un ritornello che parte dalla world music, confina col blues, e alla prima grande occasione live nel paese che ti ha consacrato come star europea lo contamini col la disco di Dont Let Me Be Misunderstood. Massimo rispetto a Imany, la voce francese che canta in inglese su tutte le radio del continente da qualche mese, da quando quel You Will Never Know ha vinto la gara a tormentone (ma è riduttivo chiamarlo così) dell’estate 2013.
E proprio la contaminazione si rivela la carta vincente di una cantante che per sua ammissione “si è avvicinata tardi alla musica, a 27 anni” e che all’attivo ha solo un disco. Oggi, a 34 anni, una carriera da modella alle spalle, e una come “chanteuse” con chitarra acustica appena iniziata (“perdonatemi se sbaglio, sto imparando a suonarla”) Imany sa come riempire di sorprese il live, che da Milano segna la partenza del tour italiano (5 dicembre Firenze, Obihall, 6 Roma, Auditorium Parco della Musica (sala Petrassi), 7 Bari, Medimex, 9 Arenile Bagnoli Napoli, 10 Senigallia, Teatro La Fenice, 11 Rimini, Teatro Novelli, 12 Torino, Hiroshima Mon Amour).
La sua hit la spara subito in testa allo show, poi invita il suo supporter, un altro innamorato (deduciamo) di Tracy Chapman, Faad Freddy, un cantante emergente senegalese che in apertura ha convinto il pubblico in attesa con semplici melodie voce e chitarra e anche un’insolita cover di I Need a Dollar. Insieme, si ritrovano in una commovente e intensa Slow Down, un duetto che oggi sta alla nostra epoca come quelli di Amii Stewart stavano bene negli anni ’80. Un affiatamento dei due invidiato da molti discografici e artisti che gremivano i Magazzini Generali.
Diciamocela tutta, con un singolo di successo e un’immagine mozzafiato, la bella Imany non aveva molte speranze di convincere la critica. Ma dal vivo fa di tutto per recuperare il tempo perso sulle passerelle. È innegabilmente questo il suo mestiere, smuove la folla, la coinvolge, si sente a suo agio molto più che nel primo showcase a fine estate nel nostro paese che le ha regalato la notorietà per primo dopo la Francia. Si diverte quasi a spiazzare gli spettatori con una versione davvero da brivido di Bohemian Rhapsody dei Queen, con un arrangiamento così accattivante che vuoi non finisca mai. Gli archi e le percussioni on stage rivelano un lavoro di direzione artistica notevole, di spessore, mai sbavato, sempre centrato. E poi il medley Sign Your Name di Terence Trent d’Arby con Ready or Not dei Fugees, un ponte ideale tra l’r’b che l’ha ispirata tra gli ’80 e i ’90. A confronto di tale genialità reinterpretata con maestria, i pezzi del suo disco impallidiscono leggermente ma è lo stesso un piacere per le orecchie. Diamole il tempo di un altro brano-martello e avrà ovazioni.