In scena al Teatro Bellini, fino a domenica 19 Gennaio, Sergio Rubini e Michele Placido in Zio Vanja di Anton Cechov, prodotto dalla Goldenart, per la regia di Marco Bellocchio.
Rappresentato la prima volta a Mosca nel 1900, il testo è una pietra miliare del realismo del secolo scorso (il sottotitolo recita, infatti, “scene dalla vita di campagna”). Vanja (Rubini) ha amministrato con sua nipote Sonia (Anna Della Rosa), coscienziosamente, per trent’anni, la tenuta di campagna della sua defunta sorella. Il professor Serebriakov (Placido), marito di questa e, in seconde nozze, della bellissima Elena (Lidiya Liberman), giunge nella tenuta con l’intento di venderla, onde ricavarne una dote per poter mantenere un certo tenore di vita in città. Questo il pretesto del conflitto tra lui e Vanja. In realtà, questo conflitto ha ragioni più profonde. Vanja, raggiunta la mezza età, si rende conto di aver sprecato la propria vita al servizio di un uomo di scienze le cui capacità non meritavano tanta dedizione e venerazione: il professore in pensione, vecchio, malato, si è rivelato un bluff.
E’ un dramma sulla caduta delle illusioni o, per usare un’espressione novecentesca, sulla caduta delle ideologie. Da qui, la domanda desolante, tremenda, che Vanja pone al suo amico, dottor Astrov (Pier Giorgio Bellocchio): “come occuperò il mio tempo da ora fino alla morte?”. Il dramma è una moderna tragicommedia, dove il senso della tragicità della vita affiora dal senso del ridicolo dei personaggi. Come un moderno Amleto, Vanja non sa come reagire alla nuova situazione che gli toglie – letteralmente – il terreno da sotto i piedi. Come Amleto, gioca la parte del fool, del matto, per sputare in faccia a tutti la verità. Ma, diversamente da lui, non possiede alcun eroismo che lo spinga a gesti estremi: ancora una volta, si rende ridicolo sparando al professore e mancandolo per ben due volte. Dopo di che, passata la tempesta (non solo interiore, ma anche – bellissima – quella scenica, che ricorda quella del Re Lear), tutto torna come prima: i due fanno pace, il professore parte con la bella moglie, Vanja e Sonia continueranno ad amministrare la tenuta e a spedire i soldi alla coppia inurbata. Tutto uguale. Per sempre. Più tragico di così…
La regia di Bellocchio tende a restituire, giustamente, il senso del grottesco della vicenda (ricordiamo che lo stesso Cechov definiva i suoi drammi “commedie”), anche se avrebbe potuto premere un po’ di più l’acceleratore. Alcune scelte interpretative, relativamente ai personaggi, appaiono un po’ scontate e non tutti riescono a restituire la loro complessità. Come nel caso dell’Astrov di Pier Giorgio Bellocchio, un po’ troppo – e solo – arrabbiato, che rischia di trascurare il lato cinico di un personaggio che, fin dalle prime battute dice: “Questa vita mi ha abbrutito: io non amo più nessuno”. Bravo, invece, Rubini che, con la sua rabbia contenuta e nevrotica e il giusto sarcasmo, aderisce perfettamente al personaggio. Bravo anche Placido nella sua caratterizzazione, molto personale, del vecchio professore egocentrico, viziato, sentimentalmente arido, superficiale. Tra gli altri interpreti va menzionato Bruno Cariello nel ruolo del candido Telieghin. Belli i costumi di Daria Calvelli, anch’essi “aderenti” ai personaggi, e le scene di Giovanni Carluccio (che firma anche il disegno luci), la cui maestosa nudità sembra suggerire il freddo, non solo climatico ma anche emotivo ed intellettuale, di una società decadente e senza più punti di riferimento. Che è un altro modo per sottolineare l’attualità dell’opera.
Con qualche pecca, ma da vedere.