Il Soccombente regia di Federico Tiezzi con Sandro Lombardi, Martino D’Amico, Francesca Gabucci
Il Soccombente è il tredicesimo appuntamento della “Sezione italiana” del Campania Teatro Festival, diretto da Ruggero Cappuccio, che si è tenuto in un affollatissimo Cortile della Reggia di Capodimonte.
Il Soccombente, dal romanzo dell’austriaco Thomas Bernhard (1983, trad. di R. Colorni, per Adelphi), nella riduzione dello stesso Cappuccio, regia di Federico Tiezzi, protagonisti Sandro Lombardi, Martino D’Amico, Francesca Gabucci.
La storia è nota: c’è il giovane e geniale pianista canadese Glenn Gould il quale, pur non avendo già più nulla da imparare ma non essendo ancora famoso, decide di frequentare uno stage a Salisburgo col grande maestro Vladimir Horowitz.
Con lui ci sono altri due brillanti apprendisti, uno è Wertheimer e l’altro è l’io narrante del libro (Bernhard stesso), desiderosi parimenti di perfezionarsi e di diventare dei virtuosi dello strumento, ma non destinati ad esserlo, al contrario di quello che sarebbe successo a Gould.
“Già al termine del corso fu chiaro che Gould suonava meglio di Horowitz”, dice subito Bernhard, il che forse costituì per il “maestro” una piccola seccatura, ma per gli altri due fu ben più di ciò, anzi fu uno shock irreparabile.
E infatti da quello shock Wertheimer, in particolare, non si sarebbe più ripreso, diventando da allora “il soccombente”, ossia lo sconfitto, il fallito nella vita, e intraprendendo un percorso negativo, un implacabile “processo di intristimento” che non coinvolgerà solo lui ma anche una sua dolce sorella, e che alla fine l’avrebbe fatalmente condotto al suicidio.
Questo è un po’ il preambolo de Il soccombente – ma al tempo stesso anche l’epilogo – della vicenda, raccontata sul palcoscenico mediante un serrato dialogo tra i due protagonisti che sdoppiano ciò che invece nel libro è un monologo,
e che calcano una scena assai scarna e scura, con un pianoforte al centro (che però rimane spesso chiuso), incorniciata da neon bianchi di forma geometrica (un triangolo, un quadrato), e ravvivata di tanto in tanto dagli interventi di un terzo personaggio, femminile (la sorella di Wertheimer).
Ai tempi del corso tra i tre pianisti si era creata una bella quanto effimera amicizia, che però subito vacilla, non appena Gould decise di tornare in patria e soprattutto di imprimere la sua svolta “maniacale” alla propria vita musicale, cioè diventando un autentico invasato, o meglio un “radicale” del pianoforte, come lui stesso diceva;
ossia dedicandosi ininterrottamente e soltanto a quello, a suonare solo e per se stesso, senza più alcun contatto con il pubblico né con alcuno, chiuso in una casa-ghetto sprofondata in un angolo sperduto della foresta,
lontano da tutto e da tutti, e unicamente in compagnia del “suo” Bach, quel Bach di cui probabilmente si sentiva la reincarnazione e del quale in effetti eseguì e registrò, come mai nessuno prima e probabilmente mai nemmeno dopo di lui, i sommi capolavori per tastiera: Clavicembalo ben temperato, Variazioni Goldberg e Arte della fuga.
Furono proprio le esecuzioni gouldiane delle Goldberg, nella loro sublime e più che michelangiolesca perfezione, a mandare in crisi i due apprendisti e a fargli percepire la loro inferiorità, il non avere “niente dell’artista”, e probabilmente di aver scelto la musica solo per un dispetto alle rispettive famiglie.
In quel momento stesso essi allora prendono altre strade, cominciano a odiare quella musica in cui in fondo non avevano mai veramente creduto, e finiscono col vendere o regalare i loro preziosi strumenti, quel pianoforte dal quale Gould non si sarebbe invece mai separato,
ma anzi con il quale sembrava fare continuamente l’amore, accartocciandosi su di esso mentre suonava. Wertheimer ripiega sulle “scienze dello spirito”, ma in fondo coltivando unicamente la propria ossessione per l’annichilimento e per la morte, intesa paradossalmente come unica cosa degna di essere vissuta;
Bernhard, invece, si dedica alla “filosofia”, ma in verità all’osservazione “oggettiva” della natura umana, propria e altrui, alla lucida descrizione delle contraddizioni della vita e dell’ipocrisia della società.
Questo momento è decisivo, nel romanzo e sulla scena, perché corrisponde alla messa a nudo di uno dei tanti paradossi della vicenda:
“Se non avessero incontrato Gould i due sarebbero diventati ottimi e perfino eccellenti pianisti”;
ma ecco che proprio l’incontro con il genio, con l’Arte che si è fatta uomo, ben lungi dall’essere salvifico o migliorativo per gli altri uomini, ha aperto loro gli occhi sulla realtà, ha rubato loro le illusioni, danneggiandoli massimamente,
tanto più che essi hanno poi optato per altri rifugi mentali (la filosofia, la scrittura), invece che sentimentali, ciò che pure contribuirà alla loro dannazione.
Bernhard ora sembra chiedersi e chiederci quanto davvero l’arte redima o almeno giovi alla vita umana, e quanto invece la rovini.
La morte improvvisa di Glenn, giunta quando era al vertice della sua arte, per ictus cerebrale, è in fondo una vendetta dell’Arte stessa sull’uomo, suo massimo interprete, e dà la stura a tutto il dialogo e ad ogni ragionamento,
esposto sul palcoscenico con l’unico virtuosismo di cui i personaggi sono capaci, quello della razionalità: un razionalismo verbale apparentemente ineccepibile, ma in verità fallace, umanamente errato e fallimentare.
Di qui, appunto il via a quel processo autodistruttivo, di cui l’immagine più convincente – tra le tante di cui il testo è disseminato e assai ben evidenziate nella riduzione – è quella della montagna austriaca dalla cui vetta, peraltro facilmente raggiungibile con comodo ascensore,
è facilissimo buttarsi giù e difatti è scelta come meta privilegiata per molti aspiranti suicidi: si sottintende la vita come salita verso la perfezione, da cui però è anche facile – e pericolosissimo – deviare e scendere.
Misuratissimi e davvero convincenti gli interpreti de Il soccombente, in primis Sandro Lombardi che dà al Narratore quell’aria di “seria saggezza”, ma anche di “oggettiva introspezione”, talvolta venata di humour (e ogni tanto ci vuole, sennò il dialogo sarebbe davvero insostenibile!), che è propria del ruolo.
Anche Martino D’Amico fa assai bene Wertheimer, ne rende bene la lenta e inesorabile metamorfosi, da giovane fin da subito disincantato, ma che all’inizio almeno pare beffardo su tutto e perfino su sé stesso, a uomo che sprofonda in quel suo “intristimento”, c
he commette forse peccati gravi su quella sua povera sorella, e che insomma, quando finalmente prende contatto reale e personale con la Morte, si accorge che non c’è proprio nulla da scherzare e nulla di cui essere felice.
Diversi gli espedienti scenici e le allusioni, benché non sempre intelligibili:
come quell’elegantissimo frac, di cui Wertheimer è vestito fin dall’inizio, mentre al contrario il Narratore compie una metamorfosi, passando da una squallida vestaglia dell’inizio, ad una progressiva vestizione, e finendo anche lui in frac.
Ci sono poi gli interventi della donna, che parla poco, ma in compenso canta (e bene): dovrebbe essere la musica, con la sua forza buona, salvifica, ma destinata a restare inascoltata.
E c’è la musica stessa, infine, che però non viene mai, dico mai eseguita: come indica quel pianoforte rimasto chiuso per la maggior parte del tempo, e come indica la scelta finale dell’unico brano eseguito (si fa per dire), il famoso 4’33’’ di John Cage, in cui lo spartito dà istruzione all’interprete di non suonare nulla: tacet.