Il decreto diffuso ieri dopo la conferenza stampa del Presidente Conte ci conferma quel che già immaginavamo, tutte le attività di spettacolo dal vivo e di formazione sono sospese.
Ci chiediamo invece in quale fase (la 3? la 4? la 5?) ci sarà dovuta qualche risposta più specifica, quale che sia.
C’è molto da fare perché le istanze del nostro settore assumano quel carattere di urgenza che sembra dovuto ad altri comparti.
Non sappiamo più con quale mezzo ed in che lingua raccontarci ai nostri interlocutori politici, si sprecano studi di settore, grafici, algoritmi, lettere, appelli che hanno l’obbiettivo comune di dimostrare empiricamente il peso della ricaduta economica, occupazionale, civica e culturale del nostro settore, tuttavia non si riesce a modificare la percezione accessoria del nostro lavoro nella larga parte delle istituzioni. È frustrante e forviante doverlo ribadire continuamente da soli con tutte le contraddizioni che ne derivano.
Forse anche per noi ci vorrebbe un comitato scientifico: filosofi, psicanalisti, antropologi, scienziati, economisti di chiara fama che sappiano raccontare meglio di noi, diversamente da noi, la nostra funzione.
Basti pensare che in passato le polis venivano costruite a partire da una piazza centrale, deputata al rituale politico; una chiesa, deputata al rituale religioso; un teatro, deputato al rituale laico.
Ci troviamo di fronte ad un bivio, le scelte che si faranno oggi segneranno il futuro dello spettacolo dal vivo e soltanto con l’intervento di investimenti strutturali importanti e coraggiosi che guardino a salvaguardare il presente potremo sperare di sopravvivere oggi ed essere finalmente solidi domani. Per lo stato è il momento di scegliere.
Non c’è settore che non busserà alla sua porta poiché la pandemia ha investito tutto e tutti, saprà il governo equiparare le istanze di settori molto più assertivi, rappresentati e compatti a quello dei 300.000 lavoratori dello spettacolo dal vivo? Noi dovremmo capire di non essere 20mila + 10.000 + 70.000 + 90.000 + 110.000; di non essere la lirica, la prosa, i festival, i grandi teatri, i piccoli teatri, i circuiti, gli attori, i critici, i tecnici, le associazioni e le altre mille categorie in cui ci frammentiamo, ma di essere in 300.000 mila, nel mezzo di uno tsunami economico e sociale che rischia di spazzarci via tutti.
In questo momento la poetica dovrebbe essere “mettere la poetica da parte” o forse la poetica sta nella privazione della poesia. Questo tempo sospeso, che apre dibattiti e domande sul senso del nostro lavoro porterà con sé idee e contenuti; fornirà materiale scenico nuovo e fertile per i prossimi duecento anni ma a patto che si trovi il modo per tornare a lavorare.
Oggi, disarmati ed impotenti di fronte ad un nemico imprevisto e letale, in attesa di misure e date certe, ci stiamo interrogando sul da farsi.
Passando dall’universale al particolare, abbiamo immaginato quali conseguenze avverrebbero le chiusure di teatri come il Bellini, sugli artisti, sulla filiera legata alle produzioni, sul pubblico e sulle tante attività che gravitano intorno a noi: fornitori, bar, ristoranti, alberghi, mezzi di trasporto. Rischierebbero di crollare in parecchi. Siamo testimoni di come un teatro che viva abbia contribuito nel corso degli anni a segnare la rinascita di un intero quartiere.
Ad illuminarlo, letteralmente. Siamo dunque consapevoli di dover assolvere alla nostra funzione, sociale ed istituzionale, anche se dovessero essere confermate le complesse condizioni non ancora ufficiali che trapelano in questi giorni. Applicheremo tutte le normative, in fase di studio, utili a mettere in sicurezza la salute del nostro pubblico. Probabilmente nella prima fase di riapertura ci sarà concesso di andare in scena soltanto con spettacoli ad uno, due o al massimo tre attori, il che ha in sé l’enorme limite di non creare lavoro per gli artisti, o almeno di limitarlo ad un numero davvero esiguo e per di più, probabilmente, formato in larga parte dai nomi più solidi del panorama nazionale. È su questo punto che noi insistiamo, augurandoci che parallelamente, il governo possa recepire la richiesta di poter provare ed allestire i prossimi spettacoli, quelli che presumibilmente andranno in scena quando tutto tornerà alla “normalità” insieme ai percorsi di formazione. Questo ci consentirebbe di rimettere in moto l’intera macchina produttiva e riattivare tutta la filiera che è formata oltre che dagli attori, anche da registi, scenografi, costumisti, tecnici, scenotecniche, sartorie ecc. Al netto delle teorie che ci dicono che per fare teatro basti un attore, una lampadina e uno spettatore ci preme la salvaguardia dell’intera categoria.
Per farlo sono necessarie due cose, da un lato che venga istituito e sostenuto un protocollo sanitario chiaro che regoli la possibilità di far provare le compagnie in un ambiente sicuro (così come accadrà per gli sport di squadra, cui sarà concesso riprendere l’attività agonistica a porte chiuse) dall’altro che lo stato evidenzi delle misure di sostegno essenziali alla tutela dell’attività produttiva essenziale a garantire l’esistenza della nostra “specie”. Si tratta di una scelta politica. Ad oggi il Fus rappresenta lo 0.047% del Pil (compresi il cinema e l’audiovisivo), nel 1985 rappresentava lo 0.083%.
Lo stato in questo momento ha una grande occasione. Come lo vorrà questo paese? Saprà mettere al centro della ricostruzione la sua bellezza? Vorrà investire in quei settori più fragili e necessari a costruire un’idea di futuro?
Tutti ci auguriamo che questa drammatica pandemia, possa rivelarsi una spinta a creare un “nuovo mondo”. Ma il cambiamento auspicato non deve minare in alcuno modo la naturale e primaria necessità del ritorno alla condivisione, al contatto, all’aderenza tra individui. Il rispetto delle misure di distanziamento sociale deve servire esclusivamente al riavvicinamento sociale. È urgente ribadire con forza questo concetto, tutti ci stiamo sacrificando e continueremo a farlo solo nella misura in cui l’obbiettivo sarà quello di tornare a stare insieme. Meglio di prima ma come prima; e lo spettacolo dal vivo può e deve esserne simbolo e bandiera.