“Il cacciatore di tarante” il libro di Martin Rua edito da Rizzoli la recensione di Roberta D'Agostino
‘Calata’, tarantolata dalla lettura de “Il cacciatore di tarante” di Martin Rua (Rizzoli editore). Un libro che ti ammalia, ti strega, ti coinvolge a tal punto da sentirti punto dal veleno della taranta che ti spinge a leggere le pagine come un ossesso, per sapere come va a finire, quasi guidato da una musica dionisiaca.
Un inno alla bellezza del Salento, dove il libro è ambientato, con accenni a Napoli e a Torino, ma non una semplice ambientazione, bensì uno studio del territorio e della lingua pazzesco, quasi ossessivo e qui torna il tema delle tarante, delle malombre.
La lingua usata da Rua è un perfetto insieme di diversi linguaggi: il dialetto napoletano, pugliese, torinese, perfino il grico, oltre che il greco e, naturalmente, l’italiano utilizzato dall’autore con una padronanza sconcertante, in alcuni passaggi le parole scelte sono perfette.
La conoscenza del mondo esoterico di Rua non è una novità, già nei suoi precedenti romanzi ne fa ampio sfoggio, ma qui sono gli intrecci che funzionano e si vanno a collocare insieme come parti di un ingranaggio che alla fine si dimostra perfetto.
1870 Il demone è tornato. E ora reclama il suo tributo di sangue. Ecco perché questo posto non troverà mai pace: qui da millenni si venerano gli dèi sbagliati.
L’Italia è appena stata fatta, ma per fare gli Italiani la strada è ancora lunga. Giovanni Dell’Olmo, ispettore di pubblica sicurezza a Torino, e il duca Carlo Caracciolo de Sangro, brillante medico a Napoli, incarnano alla perfezione gli stereotipi del Regno:
il Nord sabaudo freddo e rigoroso e il Sud borbonico godereccio e superstizioso.
Ma i due hanno qualcosa in comune, perché nel loro campo sono i migliori, e questo rende entrambi degli outsider, malvisti da colleghi e sottoposti.
Le loro strade s’incrociano quando Giovanni, sulle tracce di un assassino noto come l’Imbalsamatore, viene spedito nel tanto disprezzato Mezzogiorno del Regno per una missione: ironia della sorte, il Ministero gli affianca proprio un napoletano, il dottor Caracciolo de Sangro e le indagini condotte ai due portano alla scoperta della verità
Gli usi, le credenze di paese, ma anche quelle dell’Italia intera, come quella secondo la quale un napoletano ed un torinese non possono andare d’accordo, abbondano nel testo, e lo arricchiscono.
Non solo arte, mistero, materie che, come detto, sono pane quotidiano per l’autore ma in questo lavoro si fanno accenni all’Eneide, a Lombroso e si fa sfoggio di una approfondita conoscenza del mondo dei ragni, delle tarante, delle malombre.
Non so quanto tempo Rua abbia dedicato allo studio preliminare per scrivere questo testo, ma credo che sia stato talmente lungo da permettergli di creare una gemma preziosa che, a giusto titolo, si colloca nelle migliori librerie e soddisfa un pubblico trasversale che in esso trova tanti mondi differenti eppure interconnessi.
I dolori che portano alla pazzia sono trattati con attenzione da Rua: il Caracciolo soffre per la morte della madre avvenuta trenta anni prima, e affoga il suo dolore nell’alcol;
questo lo rende a prima vista debole, un pazzo come dicono gli abitanti dell’immaginare cittadina di Ariadne, ma non è così, è l’amore che rende l’uomo matto.
A volte l’amore abbaglia e nasconde la verità e quando tutto sembra concluso arriva il colpo di scena.
Non resta altro da fare che correre in libreria e farsi contagiare dal ‘veleno’ della conoscenza.