“Il buco” arriva direttamente online nel catalogo di Netflix, dopo esser stato premiato e candidato in diversi festival, tra cui quelli di Torino e Toronto. Il film segna l’esordio dietro la macchina da presa del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia. Crudo e crudele, ennesima incursione nel cinema distopico, questa opera prima si colloca a metà tra le claustrofobiche atmosfere di “Cube” e la scala sociale di “Snowpiercer”.
La scelta di un cast “normale”, privo di sex symbol o figure sopra le righe, offre un senso di amara verosimiglianza e la sceneggiatura si muove con lucidità nel procedere macabro degli eventi, fino ad un epilogo che si concentra più sullimportanza del messaggio che su una chiusura ad effetto.
La trama parla da sé: un uomo, Goreng (Iván Massagué), si è offerto come volontario per entrare nel “buco” e alla fine di un periodo di sei mesi otterrà l’atteso “attestato di permanenza”. Lo scorrere dei giorni e l’incontro-scontro con diversi compagni di cella, gli farà scoprire fin dove può spingersi l’animo umano in condizioni di estrema necessità nella quale la sopravvivenza di uno può dipendere da quella dell’altro. L’uomo si risveglia in una prigione verticale, sopra e sotto di lui livelli interminabili. I prigionieri vengono nutriti grazie a una piattaforma che procede di livello in livello, sulla quale è imbastito un enorme banchetto. Se tutti i carcerati prendessero solo quanto basta a sopravvivere, ci sarebbe abbastanza cibo per tutti. Ma non è così ovviamente: chi sta in cima si ingozza, chi sta sotto muore di fame, e chi sta nel mezzo vivacchia. “Il buco” è un film di genere che non teme di sprofondare in una violenza sia psicologica. Questo splatter abbonda di sangue e dettagli sadici, cannibalismo e secrezioni umane usate a volte in maniera sorprendente; è uno di quei film in cui i protagonisti discendono letteralmente in un inferno, portandone progressivamente i segni addosso. Finché, alla fine, non sono che l’ombra di ciò che erano. Infine, vedendolo in questi giorni, è impossibile non trovarci dei paralleli con il momento che stiamo vivendo; in particolare con il tema della responsabilità individuale. Questo esperimento si contamina di riflessi psicologici in una sorta di ricerca dell’equilibrio, mettendo a nudo i limiti dell’intera razza umana nella concezione di una solidarietà totale irrealizzabile.