Evgenij Onegin da Petr Ilic Cajkovskij al teatro San Carlo
Evgenij Onegin è un melodramma composto nel 1879 da Petr Ilic Cajkovskij su libretto proprio, basato sull’omonimo romanzo in versi di Alexandr Puskin:
in questi giorni di scena al San Carlo nella versione di una produzione tedesca (Komische Oper di Berlino), con la regia dell’australiano Barrie Kosky e la direzione d’orchestra affidata al genovese Fabio Luisi.
Tatiana è una dolce ragazza di campagna, molto sognatrice, che si innamora a prima vista di Onegin, giovane disincantato e indolente, il quale però, essendo già fin troppo esperto della vita, non ricambia.
Poi c’è Lenskij, romantico poeta, che è il più caro amico di Onegin e che a sua volta ama Olga, la sorella meno bella e più pragmatica di Tatiana.
Ad un certo punto ad un ballo, dei commenti uditi e dei pettegolezzi, uniti agli effetti dell’alcol, irritano Onegin al punto da indurlo a vendicarsi proprio contro Lenskij:
ballerà e farà il cascamorto con Olga apposta per provocare la sua gelosia. Lenskij infatti si incollerisce ed arriva a rompere l’amicizia e a sfidare a duello il compagno, ma nella sfida successiva sarà lui a perire;
per cui Onegin sprofonda nel rimorso e fugge all’estero. Anni dopo egli rincontra Tatiana ad un ricevimento del principe Gremin e, folgorato dalla sua bellezza, stavolta si scopre lui perdutamente innamorato di lei.
Amara sorpresa, però, sarà sapere che la donna nel frattempo ha sposato il principe, ed amarissimo constatare che ella, pur riconoscendo i segni dell’antica fiamma, si conferma nella fedeltà coniugale ed ormai non lo vuole più.
Evgenij Onegin è un’opera di forti passioni, certamente, ma soprattutto opera della nostalgia e del rimpianto per le occasioni perdute, dove il non detto ed il sottinteso hanno un peso almeno pari a ciò che viene espresso (si pensi ai finali d’atto, così sommessi ed anti-retorici).
In questo senso, opera dove forse risuona una sensibilità propria del popolo russo, ma nella quale in fondo ognuno può riconoscersi, quando ammetta che le passioni intime, più recondite ed anche contraddittorie, scaturite dall’Eros insomma,
sono quelle che provocano i nostri atti più importanti e decisivi, ma appunto anche quelli contraddittori e generatori di delusioni.
Ben doveva saperlo, evidentemente, Cajkovskij, che era un uomo costretto in un rigido autocontrollo, oltre che nelle convenzioni del suo tempo, e alquanto dilaniato tra due polarità che egli stesso fa esprimere in un duetto proprio iniziale, tra la giovane Tatiana
(“I sogni sono stati i miei fedeli compagni fin dall’infanzia”) e la madre M.me Larine (“Gli anni passano e comprendo che nella vita non ci sono eroi”).
Ne risulta che l’Evgenij Onegin , che si intitola ad un personaggio maschile pur essendo invero predominato dall’elemento femminile, alterna convenzioni teatrali e musicali (compresa la tecnica delle citazioni e delle autocitazioni) a spunti originalissimi (nella qual cosa vediamo analogie con le ultime creazioni verdiane, Otello soprattutto).
I quali vanno naturalmente ricercati nelle intime ragioni della musica, più che nella storia banalotta.
La musica infatti in Evgenij Onegin è tutto tranne che mero accompagnamento, ma anzi protagonista dall’inizio alla fine, talvolta in modo sommesso e col suo tipico procedere a onde, o meglio,
a pulsazioni continue (come quelle di un cuore che batte forte e all’improvviso rallenta, e poi riparte), altre volte col fasto di una melodia franca e di un lirismo irresistibile (con tanti spunti che si imprimono facilmente in memoria,
penso alle danze e ai ritmi ballabili che costellano la partitura, agli innesti di musica popolare o popolaresca), altre infine sotto forma di improvvisi scarti sonori, avvolgenti e maestosi, a tratti addirittura roboanti,
che partono dai meandri del golfo mistico, poi invadono la scena e infine dilagano e risalgono, fino a raggiungere l’ultimo spettatore seduto nel più alto dei palchi (dove ieri faceva caldo, per la verità, a dispetto dell’aria condizionata).
Di tutto ciò è ben conscio Luisi, la cui direzione di Evgenij Onegin è stata precisa, analitica, convincente in ogni senso:
il maestro, al suo esordio operistico qui al massimo napoletano (lo attendiamo ora con la parimenti impegnativa quadrilogia sinfonica di Brahms, dopo di che ci augureremmo di vederlo più spesso a Napoli),
impone alla compagine sancarliana di seguirlo alla lettera e con pochissime distrazioni o sbavature, facendole pure sfoggiare begli impasti timbrici e vividi colori, e soprattutto un’ottima resa dinamica,
oltre che un fraseggio molto ben congegnato con il palcoscenico e con il cast vocale. Il risultato è che lo spettacolo, pur essendo lungo in verità, si fa seguire senza alcuna fatica, anzi con frequente trasporto.
La regia è sorvegliata e precisa, senza strafare e senza particolari ‘trovate’, tranne due che meritano la segnalazione: lo smontaggio, in scena e “a vista”, della ricca casa di Gremin (che equivale allo smontaggio delle finte certezze piccolo-borghesi, o magari alle dismissioni di un’intera epoca), e
la fitta pioggia del finale, che irrora e bagna i due protagonisti, senza tuttavia purificarli. Belli i costumi, così come le luci, mentre nelle scene l’elemento rurale è forse troppo in evidenza, nel senso che quel pratone alberato alla fine è parso troppo fisso e in fondo statico e stancante,
a dispetto della pedana girevole al centro (che magari aveva un risvolto psicologico, ma che sicuramente per chi era in scena costituiva motivo di ansia).
Buono anche il coro, ormai sapientemente diretto da José Luis Basso.
Non molto da dire, infine, e comunque niente di male, sul cast vocale, che ha avuto nella complessiva omogeneità la sua carta vincente:
il baritono Rucinski è un Onegin adeguato ma non impressionante, così come la soprano Stikhina (Tatiana) e la contralto Surguladze (Olga);
una spanna sopra, invece, ci son parsi il tenore Fabiano (Lenskij) ed il basso Tsymbalyuk (Gremin).