Giuseppe Marini, attore e regista teatrale, da anni porta avanti il suo lavoro, con impegno e dedizione. I suoi spettacoli sono di forte impatto visivo e sonoro, la cui scrittura scenica è personalissima e mai disgiunta da forti solidità drammaturgiche. Tra i suoi spettacoli troviamo QUADrat, da Samuel Beckett, Una Casa di Bambola, di Henrik Ibsen (che lo ha proiettato in una posizione di primo piano tra i nuovi registi della scena nazionale e che ha segnato l’inizio della collaborazione con la Società per Attori di Roma), Il Figliastro di Massimiliano Palmese, fino all’ ultimo Mar del Plata di Claudio Fava che tornerà a Roma in novembre per poi fare una tournée nazionale.
Per la prima volta in teatro, il capolavoro di Charlie Chaplin. Il grande dittatore è una commedia musicale. Ci parli di questo progetto?
«Il progetto era di riportare alla ribalta teatrale un capolavoro della cinematografia mondiale come Il grande dittatore di Chaplin. Credo che il teatro contemporaneo possa attingere dalla letteratura e da altri codici non eminentemente teatrali e quindi anche dal grande cinema, non è del resto la prima volta che si portano in scena grandi capolavori cinematografici. Credo che la definizione di commedia musicale gli vada un po’ stretta. In Italia quando parliamo di commedia musicale si fa subito riferimento alla grande ditta di Garinei e Giovannini. Pur nel grande rispetto di questi nomi il grande dittatore non è una commedia musicale in quel senso, non è un musical. L’uso della musica ha qui una valenza brechtiana, ecco mi piace molto pensare al teatro di Brecht; ci siamo ispirati molto al suo teatro musicale e all’accoppiata Brecht-Kurt Weill».
La regia è sia tua che di Massimo Venturiello, anche attore in scena. Come è avvenuta questa collaborazione e come avete gestito il suo essere anche attore oltre che regista?
«Sì, abbiamo voluto concertare una regia a due mani, quindi la regia è mia e di Massimo Venturiello, anche autore dell’adattamento teatrale e interprete in scena nel doppio ruolo di Hinkel e del barbiere ebreo. È stata una collaborazione felice a giudicare dal risultato certo, tutt’altro che scontata; chi ci conosce sa benissimo che sia io che Massimo abbiamo una propria e precisa poetica teatrale ma farle incontrare e fondere è stato stimolante. Avendo scritto anche l’adattamento è chiaro che Massimo abbia tenuto molto conto della sua presenza e delle sue caratteristiche attoriali all’interno del progetto, ovviamente sapeva bene cosa andava a fare e a quali pericoli come interprete andava incontro, ma insieme abbiamo lavorato a un allontanamento molto voluto e radicale dal modello Charlot».
L’attualità de Il grande dittatore risplende ancora oggi come un vero e proprio inno alla libertà, all’amore e alla speranza. La trasposizione teatrale è avvenuta con lo stesso intento o avete cercato altre strade? Altri significanti?
«Fare il verso a Charlot sarebbe stato perdente in partenza. Massimo ha dato al ruolo tutte le sue capacità, le sue caratteristiche e la sua consapevolezza di attore meridionale. L’invenzione del suo grammelot risente di inflessioni dialettali della sua terra, producendo un risultato godibile, divertente e certamente diverso dal grammelot di Chaplin nel film. La trasposizione teatrale non si allontana per nulla dal messaggio che il film ha lanciato, certo un vero e proprio inno alla libertà, all’amore e alla speranza, io aggiungerei anche un monito contro un qualsiasi fantoccio-attore che si mette in testa di conquistare il mondo. E’ molto attuale il pericolo soprattutto in periodo di grandi crisi economiche che si stagli pericolosamente una figura che può rappresentare una minaccia alla democrazia ed esautori in sé tutti i poteri. E’ spesso avvenuto nella storia, questo è in fondo un dittatore e poi come si vede nel film e nello spettacolo questo dittatore è fortemente narciso e attore, quindi ci si può leggere anche una critica a certa politica-spettacolo di sconcertante attualità, lo vediamo nei nostri dibattici politici televisivi. Il politico-attore e personaggio mediatico è una triste invenzione della nostra epoca, questo penso sia chiaro a tutti, senza bisogno di fare nomi o allusioni e quello che a me interessava è rilevare la teatralità insita in ogni regime dittatoriale. Il fascismo in Italia e il nazismo in Germania ce lo hanno fatto capire molto bene».
Ci sarà anche il famoso monologo? È stato modificato, aggiornato?
«Certo, c’è il famoso monologo finale; ogni aggiornamento di quel monologo ci è sembrato superfluo, le sue parole contengono un messaggio ancora oggi validissimo, senza bisogno di forzature attualizzanti e dietro quelle parole semplici (la grande semplicità) c’è tutto.
Era bello riascoltarle così, diciamo che è stato leggermente sfrangiato e tagliato. In cinema c’è il primo piano, ci sono gli occhi, la mimica facciale ravvicinata, a teatro si rischia sempre una certa retorica se non si trova la misura giusta anche per quel monologo».
Per tornare in “terra nostra”, credi che l’Italia stia vivendo una dittatura? Charlie Chaplin, durante il discorso all’ umanità dice: “Più che macchinari, ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza”. Credi che abbiamo perso questa capacità di guardare l’altro come un tesoro prezioso più che come un nemico? Credi che le nostre vite nel 2016 siano tutte traghettate e decise a tavolino dai potenti?
«Personalmente non credo che in Italia ci sia. Stiamo vivendo una dittatura nel senso classico del termine. Molto spesso la democrazia viene vilipesa, sbertucciata ma non c’è uno solo che tirannicamente comanda tutti e non permette all’altro di esprimersi, questo no. Forse assistiamo a forme di dittatura più raffinate, meno appariscenti, più subdole nel senso di grandi monopoli economici o nella comunicazione il virtuale ha cambiato e determinato il modo di esprimersi, di comunicare e di rapportarsi l’uno con l’altro. Ecco spesso l’altro non viene più trattato con la cura e l’espressione di sé che merita quello che possiamo definire un incontro. L’incontro con l’altro è spesso mediato, viziato, ridotto all’osso e vilipeso da certo uso che si fa del virtuale e dei social network. Basta digitare qualche tasto nella tastiera di un computer per sentirsi protagonisti a volte in maniera arrogante e prevaricatrice, si può passare una vita o delle ore intere davanti a facebook e analoghi senza veramente incontrare nessuno e scambiarsi l’emozione di uno sguardo, di una stretta di mano, di un sorriso. Tutto viene consumato in un triste rito telematico al punto che i rapporti veri spaventano. Questo produce grande solitudine alla fine e non conoscenza dell’altro per fortuna questo in teatro, per sua costituzione, non è possibile. Il teatro non è un arte solitaria ma si fa insieme, in squadra, sia quando lo si prepara che quando avviene nell’incontro vivo con lo spettatore ogni sera».
Ci sono stati episodi divertenti, o comunque particolari durante le prove?
«Certo che ci sono stati episodi divertenti nella preparazione dello spettacolo e durante le prove trattandosi in fondo di una grande commedia. Pensiamo al fatto che viene trattata una delle più atroci tragedie della storia a danno di un popolo perseguitato e già Chaplin lo fa con gli strumenti della commedia, della parodia, dello sberleffo, del grottesco e anche noi nello spettacolo ci cimentiamo con questo genere teatrale. Anzi direi di più, accostiamo la grande commedia brechtiana ad altri sottogeneri della comicità come la farsa, l’avanspettacolo, il varietà, lo slapstick.
È molto interessante questa contaminazione e poi le evocazione poetiche delegate e fornite dalla musica avendo a disposizione un grande compositore di musiche di scena come il Maestro Germano Mazzocchetti e una eccezionale interprete e una delle voci più importanti nel panorama canoro italiano, quella di Tosca».
Progetti futuri?
«Per fortuna i progetti sono tanti e non mancano mai di brulicare nella mia testa. No mi pronuncio su titoli perché sono ancora al vaglio con la mia produzione. Certamente verrà ripreso un mio spettacolo che è andato molto bene come Mar del Plata di Claudio Fava che tornerà a Roma in novembre per poi fare una tournée nazionale. Nel frattempo mi dedico anche all’insegnamento cosa per me molto stimolante e rigenerante.Avrò molte lezioni all’interno di una scuola seria e con ottime garanzie di competenza e professionalità come l’Officina Pasolini».
Che cos’è per te l’attore?
«Cos’è per me l’attore? Bella domanda! Io sono un regista che lavora molto con gli attori ed esige molto da loro. L’attore è il centro dell’evento teatrale per quanta genialità possa avere chi dirige lo spettacolo. Personalmente sono un regista a cui piace inventare ed osare, non amo i meri esecutori delle volontà di un regista. Mi piace sempre più la figura di un interprete pensante e complice del regista (sia chiaro il regista non va eliminato perché è lui che ha in mano tutta la dimensione dello spettacolo, è lui che manovra e dirige i codici del fatto teatrale, luci, musiche, scene e quant’altro) ma senza l’attore, senza la sua presenza viva fatta di carne e sangue o diciamo meglio senza quel mix di “pancia” e cervello, cioè intelligenza interpretativa, il teatro sarebbe ben poca cosa e poi lo avevo detto prima il teatro si fa insieme, in squadra. Non credo più alla dittatura del regista (guarda caso riesce fuori questa parola) né alla dittatura del mattatore primattore nell’accezione italiana. Gli ego, che pure occorrono, vanno ben misurati a favore di un teatro che abbia qualcosa da dire e voglia dirlo nella maniera, se possibile, meno onanistica possibile. Troppe vedettes, sia nella regia che nella recitazione, e troppi primati o corone guastano il teatro, un teatro d’Arte e lo portano verso altri lidi».