Giorgio Albertazzi festeggia i 90 anni di carriera e per l’occasione porta in giro per i teatri italiani lo spettacolo di William Shaekespare “Il Mercante di Venezia”, per la regia di Giancarlo Marinelli. Sul palco con Albertazzi ( che ha curato anche la traduzione e l’adattamento), l’attore Franco Castellano.
Dopo il Teatro Verdi di Salerno, dove è stato premiato con una targa celebrativa, nella quale la città di Salerno esprime al grande artista la gratitudine per il suo impegno culturale e sociale a fondamento dei valori più alti di rinascita
civile e morale, Albertazzi porta il suo spettacolo – dal 13 al 15 Febbraio – al Teatro Imperiale di Guidonia.
Per me “Il Mercante di Venezia” è sempre stata la sinfonia della giovinezza. Antonio, Bassanio, Lorenzo, Porzia, Jessica, sono l’incarnazione del sublime epigramma di Sandro Penna: “Forse la giovinezza è solo questo/ perenne amare i sensi e non pentirsi”.
In nome dell’amore non c’è pentimento se si domanda una fortuna in prestito ad un amico con il rischio di rovinarlo; in nome di una libbra d’amore non c’è rimpianto se, per un amico, sei disposto a dare in garanzia una libbra della tua carne; e non c’è tormento né dolore se, per seguire un uomo che ti fa una serenata giù dal balcone, fuggi dalla famiglia, calpesti il cuore di un padre che per te solo vive, trafugandogli dalla casa le cose più preziose. Persino quando, come nel caso di Porzia-Amleto, l’ombra del padre defunto continua a condizionare la tua scelta d’amore, tenendoti a guinzaglio, direttamente dall’Ade, o il dogma cieco di una legge sembra spegnere definitivamente il tuo sogno di felicità, intervengono puntuali un sotterfugio o un travestimento, un colpo di teatro e di giovinezza, (che son la stessa cosa), in grado di infrangere gli ostacoli.
Sarà per questo che la Venezia di Shakespeare, nella mia fantasia, nulla ha a che vedere con quella pastellata ed appestata di Thomas Mann o con quella livida e morente di Giuseppe Berto. Immagino questa Venezia simile ad una spiaggia della California; ragazzi bellissimi, donne sinuose come sirene, moto (scafi) che alzano la sabbia e le onde, un senso continuo di vertigine, una perpetua vacanza, musica dappertutto, feste dappertutto, un sabato sera periodico nell’impossibile moltiplicazione della giovinezza. Questi ragazzi veneziani fanno continuamente ciò che io, ogni volta che approdo in Laguna, vorrei fare: il bagno. Li vedo sempre umidi e seminudi, distesi al sole; anfibi verticali che sbracciano e abbracciano la città.
E Shylock? Da dove vengono la sua malvagità, la sua avarizia, la sua ostinazione a fiutare, fino ad asportare, l’odore del sangue? Mi son sempre chiesto: Shylock è semplicemente un antagonista agli eroi sopra citati? Shylock è unicamente la nota dissonante e stonata dentro la sinfonia della giovinezza? Chi è veramente Shylock?
Ho visto e soprattutto letto, la riduzione (o forse l’ampliamento, o forse la perizia poetico ermeneutica) firmata da Giorgio Albertazzi. E mi sono bastate poche parole per risolvere il mistero: “Dovrebbe essere giorno secondo lo schema spazio-tempo, invece per noi è sera. Diciamo tramonto”, scrive Albertazzi.
Giorgio Albertazzi ha fatto del “Mercante” un perfetto ibrido che sembra ora scritto da Strindberg e ora da Sartre, passando per la lussuria di Baffo e per i giocosi azzardi di Goldoni. Ha subito capito, fin dai vagiti della luce, che qui l’alba e il mattino (sommariamente intesi come il primordio della vita e quindi la giovinezza) e il tramonto e la sera (da considerarsi come tenebra, come male: come Shylock) sono di fatto non distinguibili: è come se i giovani veneziani e il vecchio ebreo siano cerchi nell’acqua creati dallo stesso sasso, riflessi specchianti dello stesso corpo, della stessa vita. Shylock odia Antonio, Bassanio e la loro cricca perché vorrebbe depredare quella giovinezza che non ha più (di qui l’ossessione per la libbra di carne che ha, di fatto, lo stesso significato dell’ossessione per l’immortalità di Faust); e Antonio e Bassanio detestano Shylock perché, in qualche modo, in lui scorgono il tramonto, il capolinea, il bicchiere rotto a fine festa che, inesorabilmente, li attende. In questo senso Shylock è Antonio; Shylock è Bassanio; Shylock è Porzia. E’ tutto ciò che sono e tutto ciò che saranno. Per questo Shylock non può essere l’ebreo rachitico, obliquo ed incartapecorito tratteggiato da Celine; anzi, è uno splendido condottiero, un ipnotico sciamano che si muove tra le calli a bordo di una stranissima zattera, così come aveva immaginato Zanzotto per un film di Fellini.
Shylock, per me, è magnetico, irresistibile, perfettamente padrone di ogni avventura e sventura; tanto da rendersi conto, nel processo finale, che Porzia si è travestita da giureconsulto: è Shylock che decide di chinare il capo, di perdere tutto. Di tornare giovane dentro a Porzia. Sì, Shylock è l’uomo più bello e più giovane che io conosca. E’ Giorgio Albertazzi. (Giancarlo Marinelli)