L’esordio alla regia di Gabriele Mainetti è già evento. Sui social e tra gli addetti ai lavori, la curiosità e tanta per l’uscita al cinema del film “Lo chiamavano Jeeg Robot”, nelle sale dal 25 febbraio. Protagonista del film è Claudio Santamaria che si convincerà di essere l’eroe del famoso cartone animato giapponese Jeeg Robot d’acciaio, affiancato dallo strambo Zingaro interpretato da Luca Marinelli e da Alessia, la sua ragazza, interpretata da un’esordiente Ilenia Pastorelli. Il soggetto del film è stato scritto da Nicola Guaglianone che collabora da anni con l’attore, regista, compositore e produttore Gabriele Mainetti, che a sua volta ha fondato una propria casa di produzione cinematografica, la Goon Films. Abbiamo incontrato Gabriele Mainetti a dicembre scorso alle Giornate Professionali di Cinema a Sorrento.
Com’è iniziato il sodalizio con Nicola Guaglianone?
«Ci siamo conosciuti all’Anac da Leo Benvenuti, grandissimo sceneggiatore che lavorava in coppia con De Bernardi. Io e Nicola avevamo un‘idea di cinema molto simile, così abbiamo iniziato a collaborare. Condividevamo tutto, dalle frustrazioni ai dispiaceri a come essere stati lasciati da una donna. Poi ho iniziato a fare l’attore mentre parallelamente studiavo regia. Appena pronto a raccontare qualcosa di mio, portai a Nicola una mia storia, me la bocciò subito. In sostituzione mi chiese di girare una delle sue storie, “Il Produttore”. Avevo già girato delle cose prima, non molto importanti, così è iniziato tutto, fino a Jeeg Robot.»
Come sei come regista?
«Con alcuni attori nasce un’empatia particolare come ad esempio con Luca, mentre con Claudio Santamaria, che è un mio amico da vent’anni, questo film è stato un modo per riavvicinarci, ci sentiamo sempre adesso, tutti i giorni. Con Ilenia Pastorelli, lei non faceva l’attrice, ho instaurato un rapporto speciale che continua ad andare avanti, non è stato chiuso lì. Sono un regista che sfinisce l’attore fino a quando può, nel rispetto poi delle regole e delle leggi che t’impongono a non andare avanti per troppe ore, se non lo stressi infinitamente, però, voglio avere grande controllo. Claudio, ad esempio, è un attore che ha bisogno di grande direzione, anche Luca ha bisogno di direzione e conferme, però, vuole molta più libertà. Se il regista è uguale con tutti i suoi attori, si sente che non è un regista d’attore.»
La spinta a fare questo film te l’ha data l’ultimo corto, Tiger Boy, con il quale hai ricevuto parecchi consensi?
«Per fargli dare una certa considerazione dovevo ricordare a tutti che Tiger boy era entrato in nomination agli Oscar. Quando parlavo degli Oscar, tutto cambiava, dando importanza al corto.»
Com’è iniziata questa tua passione e lavoro per la regia?
«Ho iniziato a studiare sceneggiatura a diciotto anni. Mentre studiavo, mi dicevo che mi sarebbe piaciuto capire veramente bene come si descrivono i personaggi, quindi seguire un corso di teatro. In seguito mi sono appassionato alla recitazione, nata più come un gioco, anche se l’obiettivo principale era sempre stato di fare il regista. Per anni mi sono perso nel mondo della recitazione, che seduce il narcisismo quello più semplice. Non dico che il regista non sia un narciso, secondo me, un po’ più complesso di quello dell’attore, che ha la sua opera che tutti devono vedere, mentre l’attore sta lì e si fa vedere. Pian piano mi avvicinavo alla regia e poi mi riperdevo, mi avvicinavo e mi riperdevo. Sicuramente, si sente che sono un attore, perché adoro da morire i miei personaggi e l’amore con il quale abbiamo portato avanti il lavoro sui personaggi con gli attori è un po’ speciale.»
Sei anche compositore, suoni un particolare strumento?
«Ero un chitarrista e all’età di ventidue anni circa ho studiato composizione, perché m’interessava. Ho sempre amato la colonna sonora, mi piaceva come, in un certo modo, accompagnava, sosteneva, aiutava, si struggeva l’immagine. Mio zio è un grande compositore di colonne sonore, infatti, ha fatto più di 130 film ed è l’unico elemento fortemente artistico all’interno della mia famiglia. Quando ho pensato di sensibilizzarmi a qualche cosa che fosse fuori dal nucleo familiare, ho scelto il cinema anche un po’ grazie a mio zio.»
In questo film c’è qualche tua composizione o avete scelto diversamente?
«Il personaggio di Luca Marinelli è un amante delle icone pop anni ’80 femminili italiane, io le amavo moltissimo e Nicola Guaglianone, lo sceneggiatore, condivideva. Quelle sono non originali, poi, tutto il resto, anche il commento che ho composto insieme a Michele Braga è originale. In Tiger boy l’ho curata da solo la colonna sonora, come anche la produzione. Per realizzare un film è fondamentale un sostegno, un confronto. In “Lo chiamavano Jeeg Robot”, senza Michele Braga, non sarebbe uscita una colonna sonora della quale sono estremamente felice.»
Lo chiamavano Jeeg Robot è prodotto anche dalla tua casa di produzione, Goon films, come e perché l’hai fondata?
«È nata quando ho voluto iniziare a girare i miei cortometraggi. Li producevo da solo perché non volevo che nessuno mi dicesse niente. Ho avuto soltanto un’esperienza produttiva, in cui non ero io quello che portava avanti il budget del film, ed è stata estremamente infelice. Non voglio rotture di scatole e problematiche inutili, perché il nostro lavoro, quello del cinema, è molto stressante, in tutte le realtà cinematografiche, americane o meno. Quando ho avuto l’idea di realizzare un lungometraggio, una strada veramente difficile, ho pensato di coinvolgere un produttore, ma nessuno mi ha seguito. Allora ho deciso di fare tutto da solo, ecco perché ho impiegato quattro anni per fare il film.»
Parliamo del pluripremiato corto Tiger boy, perché hai voluto raccontare una storia sulla pedofilia?
«La cosa è assurda, sono stato chiamato da una società che voleva realizzare cinque cortometraggi sul sociale, loro avevano visto Basette, che per certi aspetti era piaciuto perché ha questo risvolto finale un po’ amaro del dramma periferico e della malavita che non porta a niente di buono, allora, mi dissero, scegli tra questi temi e scelsi il tema difficile che viene trattato in Tiger boy. Ne parlai con Nicola Guaglianone e lui mi disse, “facciamolo, però a modo nostro”. Presentammo il progetto, scritto su una pagina e mezzo a questa casa di produzione che non l’ha mai letto, neanche in quattro o cinque mesi, così mi arrabbiai e li lasciai perdere. Ed è nato tutto così. Io e Nicola ci siamo confrontati con questa problematica dandole uno sguardo originale.»