Francesco Tesei, dopo il successo di “Mind Juggeler“ – spettacolo che ha registrato più di 100 mila spettatori – torna sulle tavole del palcoscenico con “The Game”. Uno nuovo show, dinamico, coinvolgente, in cui Tesei – riconosciuto come uno dei mentalisti più apprezzati d’Italia – in un due ore e mezza di spettacolo intrattiene il pubblico in un grande gioco, che ruota intorno ai numeri e alla fortuna. Abbiamo intervistato Francesco Tesei, in attesa di vederlo sul palcoscenico del Teatro Augusteo di Napoli, il 16 Maggio.
Dopo il successo di Mind Juggler arriva The Game, uno spettacolo di mentalismo diverso da qualsiasi altro spettacolo di teatro. Che differenze ci sono tra il primo spettacolo e quest’ultimo?
«“Mind Juggler” presenta il mentalismo a 360 gradi perché è stato scritto ed è nato in un periodo in cui il pubblico italiano non conosceva assolutamente questa parola. Fortunatamente , quando ho cominciato a portare in giro questo spettacolo a teatro, contemporaneamente è arrivata la serie televisiva The Mentalist, poi sono uscite altre serie tv americane che in qualche modo parlavano della comunicazione in maniera abbastanza particolare e interessante. Questo mi ha sicuramente dato un mano, agevolando il mio lavoro. Dopo sei anni in tour con “Mind Juggler”, dopo aver pubblicato il per la Rizzoli “Francesco Tesei: il potere è nella mente”, ma soprattutto dopo il programma televisivo su sky “Il Mentalista – pillole della serie tv”, sia io che il mio collaboratore Deniel Monti abbiamo sentito che il mentalismo cominciava ad essere un po’ sdoganato. Quindi ci siamo messi a tavolino pensando ad un nuovo spettacolo, che fosse concentrato su un tema specifico. In questo caso il tema di “The Game” è la fortuna. Che cos’è la fortuna? Esiste o non esiste? E se esiste quanto è condizionabile? A me da mentalista piace molto l’dea di dire come funziona il controllo sulle cose e soprattutto su noi stessi. Fare uno spettacolo che girasse intorno al tema della fortuna era un po’ una sfida, perché chiaramente la fortuna è per sua stessa definizione una cosa più incontrollabile che c’è. Invece nello spettacolo la sfida è di trovare un po’ quelli che io definisco incantesimi della mente, i trucchi, le tecniche e le idee per riuscire a controllare anche ciò che noi riteniamo assolutamente incontrollabile, quindi la fortuna. Per arrivare a capire come funziona la fortuna e come la si può controllare, si possono scoprire alcune cose interessanti, non tanto sulla fortuna in sé ma su come siamo fatti noi, in quanto esseri umani. Come ragioniamo, quindi scoprire qualcosa su noi stessi. A differenza del precedente spettacolo, in “The Game” c’è un percorso narrativo, in cui ogni cosa è legata alle altre e tutte segnano tappe di un percorso chiaro».
Anche in The Games ci saranno momenti in cui interagisci con il pubblico?
«Questa è una caratteristica che rimane dallo spettacolo precedente. Gli spettatori vengono invitati sul palcoscenico, scelti in maniera casuale e diventano i protagonisti insieme a me dell’intero show. Durante lo spettacolo il pubblico vede accadere delle coincidenze incredibili, che partono da cose semplici fino a cercare di indovinare i numeri della lotteria. Tutti questi esperimenti danno la sensazione che tutto accade in maniera assolutamente fortuita e casuale, però è chiaro che al contempo è naturale ed evidente che non può essere il caso e la fortuna a governare tutte queste cose. Questa stessa sensazione che il pubblico vive durante lo spettacolo può diventare uno spunto di riflessione relativo a come noi vediamo la realtà, a come tante cose che ci sembrano frutto di pura casualità e fortuna, soprattutto quando osserviamo le vite degli altri, che spesso ci appaiono più fortunate delle nostre. In realtà ci devono essere delle spiegazioni, dei motivi, che rendono la cosa sicuramente meno casuale di quello che noi recepiamo».
In The Game si parla di numeri, fortuna, lotteria. Il prossimo 16 Maggio sarai al Teatro Augusteo di Napoli, dove questo genere di cose sono il pane quotidiano. Hai preparato qualcosa in particolare?
«Prima di tutto ho un ricordo bellissimo delle volte in cui sono venuto a Napoli con lo spettacolo precedente. In particolar modo del pubblico napoletano e del modo di trasmettere il suo entusiasmo. È davvero molto bello, mi è rimesto nel cuore. Non vedo l’ora che arrivi questa data. Mi auguro che ci siano tante persone perché proprio per la natura del mio spettacolo più siamo e più ci divertiamo. Sono curioso di vedere il pubblico napoletano, notoriamente scaramantico, come prenderà questa chiave di lettura, questa prospettiva che io propongo come sottotesto. Lo spettacolo è un insieme di tessere che man mano si incastrano tra loro per poi comporre l’immagine completa solo alla fine.»
Quando e com’è nata l’idea di realizzare The Game?
«Abbiamo cominciato a lavorare un paio di anni fa. Io e Deniel, coautore dello show, abbiamo cominciato a ragionare su quale potesse essere l’idea per il nuovo spettacolo. The Game è nato da una domanda ricorrente che il pubblico mi faceva spesso: “Visto che sei un mentalista così bravo perché non mi dici quali sono i numeri per giocare alla lotteria?” È chiaro che è una battuta, però mi sono accorto nel tempo che mi veniva fatta e rifatta di continuo. Così abbiamo pensato che prendere alla lettere questa battuta potesse essere lo spunto per uno nuovo spettacolo, in cui si parla del gioco, della lotteria e della fortuna. Abbiamo ampliato il discorso sulla fortuna da un punto di vista psicologico, non scaramantico o esoterico. Mi piace molto che l’idea iniziale sia stata fornita dal pubblico che mi segue. Nella fase di scrittura abbiamo fatto dei sondaggi attraverso i social network, fornendo ai miei seguaci alcune domande relative ai numeri, altre alle parole. In The Game il pubblico non è solo protagonista dello spettacolo, ma ha prestato la sua collaborazione anche nella fase di realizzazione».
Il tuo è un genere non proprio teatrale, in che modo si potrebbe definire?
«Dal punto di vista teatrale non c’è la quarta parete. Scendo giù dal palcoscenico, mi muovo tra il pubblico e il pubblico stesso sale in scena con me, quindi una peculiarità, una caratteristica che, malgrado ci sia tutto questo lavoro di scrittura precedente, c’è anche una componente forte di improvvisazione, poiché mi ritrovo sul palco con persone che non ho mai visto prima. Devo gestire i loro tempi, le loro reazioni, per non parlare delle loro scelte e di tutte quelle cose che compongono le sequenza e gli effetti».
Qual è la differenza tra mentalista e illusionista?
«Arrivo dal mondo dell’illusionismo, poi per scelta sono diventato mentalista. Ho lavorato come illusionista per anni, girando il mondo. Col tempo ho capito che i sottotesti che si potevano proporre in uno spettacolo di illusionismo andavano sempre a parare ad un mondo inverosimile. Questa situazione mi stava stretta. Avevo superato i 30 anni, mi ero appassionato di comunicazione e psicologia e volevo trovare una formula che mantenesse il piacere e il gusto di stupire la gente, ma contemporaneamente mi piaceva l’idea di proporre uno spettacolo che fornisse anche uno spunto di riflessione. Ho trovato la quadra perfetta nel mentalismo che io propongo in una chiave psicologica, quindi c’è sempre una componente di inganno, di illusionismo. Contemporaneamente, però, si finisce per poter parlare in maniera giocosa e suggestiva di quelle che sono le trappole, le insidie e gli inganni della nostra mente, così come quelle che sono le potenzialità che abbiamo dentro di noi a livello di risorse inconsce, senza voler toccare il mondo del paranormale, lontanissimo da me. Non ho nessun potere, nessun dono sovrannaturale. Io per primo non credo nel mondo del paranormale. Provo ad intuire quello che sta pensando una persona attraverso il linguaggio del corpo, le microespressioni del viso, quindi parliamo di psicologia, comunicazione. Se dovessi sintetizzare questo lungo discorso in una frase direi che il mentalismo o meglio un mentalista come il sottoscritto è un illusionista, uno psicologo ed un esperto di comunicazione».
In che modo ti sei avvicinato a questo mondo e perché?
«Raoul Cremona una volta ha detto: “un prestigiatore è un bambino a cui hanno regalato una scatola di magia e che 20 anni dopo è ancora lì che ci sta giocando”. Questo per dire che effettivamente a me è successo questo. Conosco un po’ tutti i maghi italiani, perché comunque l’ho fatto come professione per tanti anni e tutti quanti condividono lo stesso percorso. Devo ancora incontrare qualcuno che mi dice che è un illusionista, che ha magari 40 anni e che ha cominciato ad appassionarsi di magia da 5 anni. Della magia ci si innamora da bambini. Qualcuno continua a mantenere vivo il fanciullino che è dentro di sé, per fare un riferimento poetico, trasformando questa passione che pian piano diventa sempre più seria e sofisticata, sempre più professionale, trasformando la passione in professione. Tutti quanti noi illusionisti condividiamo lo stesso percorso. Siamo stati tutti, almeno quelli della mia generazione, condizionati, ispirati da Mago Silvan, perché quando ero bambino in tv c’era lui e mi faceva sognare. Tutti noi abbiamo cominciato con una scatola di magia e non l’abbiamo mai abbandonata. Devo ringraziare i miei genitori che mi hanno sempre sostenuto, non mi hanno mail umiliato o fatto sentire in imbarazzo se sbagliavo qualcosa. Questo mi ha permesso di andare avanti tra successi e fallimenti e trovare la mia strada che è passata dall’idea di un bambino che dalla scatola di giochi di prestigio è passato alle tavole del palcoscenico».