Una prima proiezione lo scorso 7 ottobre 2024 alla 21esima edizione del Sedicicorto Festival di Forlì. Una produzione firmata da Elle Produzioni e distribuito da Associak. E poi ritroviamo un marchio che ultimamente firma molte collaborazioni importanti con il cinema emergente e non solo ed è la Duende Film. Un focus sul nuovo cortometraggio dei giovani fratelli Massimo e Flavio Bulgarelli, che ci regalano la visione di “Quello che non ti ho detto”, una disamina sul tema del rimpianto e dell’incapacità comunicativa in una coppia. Tanti i temi affrontati, tante le chiavi di lettura, in bilico tra la realtà di un anziano protagonista e un ricordo passato, un vita che non c’è più, un tempo che restituisce al presente sensazioni, visioni ma anche tante domande ancora da risolvere. La sua forza risiede proprio nella sua capacità di toccare corde emotive comuni a tutti, indipendentemente da background, esperienze personali o provenienza culturale.
Il dietro le quinte di un film d’amore ritrovato, dentro se stessi prima di tutto… nasconde forse un disagio sociale più ampio?
A dire il vero non sappiamo quanto la società si può rispecchiare in quello che facciamo. Noi realizziamo i nostri film sempre e solo per 2 scopi: al 50% emozionare il pubblico (sia in senso comico che drammatico) e al 50% perché piacciono a noi. Noi giriamo le storie che ci appassionano. Al di là del disagio sociale che possono rappresentare.
La figura di questi personaggi potrebbero essere quella di tutti noi?
Ognuno di noi ha il proprio contributo nostalgico o addirittura di rimorso… Certamente. La nostalgia è una delle sofferenze più dolci-amare della vita. Forse un po’ più amara che dolce, ma sicuramente di tutti. Più che di rimorso in questo corto si può parlare di rimpianto.
Ma, secondo voi, perché si arriva a non dirsi cose nella vita? Risolvere è più faticoso che evitare?
È esattamente il senso di questa storia. Le generazioni di oggi, libere da certi condizionamenti sociali legati alla famiglia di una volta, sono più bravi nel risolvere. Sono anche figli di una cultura popolare più aperta all’analisi, al dialogo, alla psicologia. Ma una volta si taceva e si “resisteva”, era quella la mentalità. Ecco perché raccontiamo la storia di una persona anziana e di un amore degli anni 70.
Alla base di questa figura assai interessante che è Giorgio c’è anche una dimensione educativa particolare. Come l’avete pensata e costruita?
Semplicemente osservando. Osservando i nostri nonni, i genitori, e tutte quelle persone che hanno trasmesso gli insegnamenti ricevuti dalle generazioni ancor precedenti. Giorgio è stato solo vittima di una incapacità di comunicare che ha imparato dal mondo che lo ha cresciuto.
E la figura di Anna quali scheletri si porta dall’infanzia?
Che poi sono sempre le basi del futuro…
A proposito di futuro: questo film alla fine lascia un messaggio di speranza per il futuro di ogni vita o un manifesto di abbandono, di rassegnazione?
Non ci interessa il messaggio finale. Ci interessa il messaggio di mezzo: non fate come Giorgio sennò si finisce immersi nei rimpianti. Poi se lo spettatore ne esce rassegnato o speranzoso non vogliamo saperlo. Ci basta sapere di averlo fatto riflettere.