Martedì 1 aprile 2014 debutterà al Teatro Piccolo Bellini di Napoli l’ultimo lavoro di Fausto Paravidino: “Exit”. Da meno di un mese la commedia ha intrapreso il suo terzo anno di tournée nazionale. Uno spettacolo profondo, delicato e divertente che racconta ironicamente la storia di quattro personaggi in cerca di una “via d’uscita”. In attesa della prima a Napoli dopo molti anni di assenza, abbiamo avuto il piacere di intervistare il regista genovese.
Iniziamo da una domanda semplice ma essenziale: com’è nato questo tuo nuovo lavoro?
«Prima ho scritto il testo, poi ho pensato allo spettacolo. La storia è nata all’improvviso, senza premeditazione. Non sapevo come sarebbe andata, ho solo cominciato a scrivere. Un po’ alla volta, però, ho avuto modo di conoscere i personaggi, capire i loro bisogno arrivando così alla fine del racconto. Abbiamo fatto la prima in Danimarca e poi il Teatro Stabile di Bolzano mi ha chiesto di fare la produzione di questo testo e adesso eccoci qui.»
Anche il lettore più distratto nel leggere la trama della pièce non può fare a meno di notare l’originale semplicità dei nomi dei quattro protagonisti, perché questa scelta di A, B, C e D?
«Faccio sempre fatica a trovare i nomi dei personaggi, ma negli spettacoli è essenziale usarli in quanto c’è sempre bisogno che qualcuno chiami qualcun altro per nome. Qui però non è successo: ecco che i quattro sono rimasti A, B, C e D proprio come sono all’inizio di tutti i copioni che scrivo. Mi sono domandato a lungo come mai non si erano dati un nome, poi ho capito che non si trattava di quattro persone da una precisa biografia. “Exit” non racconta la storia di quattro personaggi, ma di quattro luoghi.»
In altre parole chi sono A, B, C e D?
«Sono condizioni dell’animo, personaggi che richiedono tantissimi interventi intermedi e estrema personalità da parte degli attori che li interpretano. Lo spettacolo cambia a seconda degli attori che ci sono sul palco. Infatti, per circa due anni abbiamo lavorato con una compagnia, poi la giovane C è diventata così tanto incinta da non poter andare più in scena. Ecco che abbiamo dovuto sostituirla con un’altra giovane C che non fosse in attesa e quindi è cambiato lo spettacolo! In questa storia non c’è un modo per intrepretare A, B, C e D. Posso però dirti che cambiare un singolo personaggio equivale a trasformare la storia che raccontiamo: il copione non cambia, la rappresentazione sì.»
Questo lavoro racconta di legami in crisi, un tema estremamente attuale negli ultimi tempi …
«Esatto, considera anche che da un paio d’anni lavoro a un laboratorio occupato che si chiama, per l’appunto, “Crisi”. La crisi è, secondo me, sempre il punto di partenza di una pièce. Il racconto teatrale nasce da un problema: grande, piccolo, comico, tragico … Una storia comincia quando un ordine entra in crisi e mette in moto un meccanismo di azione. Preciso che non è una storia biografica: l’ho immaginata, non inventata. Si inventa quando si racconta di cose che non esistono, si immagina quando si costruisce una storia che potrebbe accadere sul serio.»
E, a proposito di crisi, lo stesso teatro ne sta vivendo una. Come affronti questo particolare momento tu che vivi di e nei luoghi teatrali?
«Diciamo che ci sono una serie di problemi legati al teatro oggigiorno. Si parla di problemi economici, ma non sono solo quelli. Anche quando gli spettacoli non costano le persone non vanno a vederli. Il teatro ha perso la sua centralità all’interno della comunità. Il luogo teatrale è stato sostituito prima dal cinema, adesso è occupato solo dalla televisione. La stessa politica ha perso la sua funzione di luogo di incontro. Non abbiamo più una società, viviamo solo di rapporti individuali.»
Il teatro però basa ancora la sua forza sul confronto e su un rapporto collettivo, non credi?
«Indubbiamente, ma viviamo in un’epoca in cui le persone sono costrette a comunicare per bisogno. In giro c’è un vero analfabetismo nel costruire relazioni che poi diventano violenze. Il teatro combatte contro tutto questo, resta un luogo speciale in cui le persone si incontrano realmente. Grazie ad esso tanti sconosciuti sono messi insieme a prendere posizione su una rappresentazione a cui anche fisicamente assistono in contemporanea. Noi abbiamo bisogno di tutto questo, necessitiamo dei luoghi di aggregazione e di confronti diretti.
Il problema è che un po’ non possiamo permetterci di andare a teatro, un po’ non sappiamo di averlo ed ecco come l’intero sistema è andato e continua ad andare in crisi.»
Nonostante tutto questo, ti chiedo dei validi motivi per convincere il grande pubblico a venire a vedere “Exit”…
«Allora, in primis posso dire che è uno spettacolo che parla di tutti … a tutti quelli che hanno avuto un’esperienza felice o triste con l’amore. Troviamo l’amore adulto e quello infantile, inoltre è una rappresentazione divertente. Ancora, siccome non recito, posso permettermi di dire che gli attori sono bravissimi!»
Ultima domanda: cosa ti aspetti dal pubblico napoletano?
«È tantissimo che non lavoro al Piccolo Bellini, per cui non lo so. Napoli è notoriamente una piazza difficile, si dice tra noi teatranti. Per cui spero ci sia un pubblico che abbia voglia di trascorrere una bella serata. E, come tutti quelli che si confrontano con questo particolare pubblico ho una sola cosa da augurarmi: speriamo che ridano!»