Esce Television Vol.3, il nuovo capitolo della discografia di Entics, l’artista milanese che si è fatto conoscere nell’ambiente rap ma che oggi ha lascoato tutto alle spalle. Amato da un pubblico trasversale (folta presenza di ragazze ai suoi show) è uno dei primi personaggi ad aver portato il mondo della urban music al grande pubblico. Ma nel nuovo brano dell’album, Facile, canta: «Non faccio rap perché non mi rappresenta, da un po’ di tempo questa cosa mi va stretta…Da fuori sembra tutto facile». Poche parole che bastano per incuriosirci e farci raccontare tutto dal diretto interessato.
Perché il disco è intitolato come terza parte?
«Perché le prime due sono uscite nel 2007 e 2010, autoprodotte, le ho messe anche sul mio sito per chiunque voglia andare a riprendersele. Era un discorso interrotto, legato molto ai primi consensi, avevo poco più di 20 anni e mi sembrava da un lato un riprendere un filo necessario, dall’altro anche interessante per far vedere che dal punto di vista lirico qualcosa è cambiato dentro di me».
Perché no al rap?
«Non è un rifiuto ma un riappropriarmi delle radici che mi hanno sempre contraddistinto, mi dovevo togliere l’etichetta di rapper perché il mio background è diverso, è musica black con parole, rispetto agli altri rapper genuini io arrivo dal ritmo caraibico, dalla dancehall, dal mondo urban che è più grande dell’hip hop».
È una virata anti-commerciale?
«Molti mi dicono che sono pazzo a tirarmi indietro ora proprio che l’hip hop tira ma a me piace fare quello, mi piace il reggae ma solo perché mi sono presentato col cappellino svoltato mi hanno detto che faccio rap. Ovviamente collaboro con artisti di quella scena, mi piace sempre, mi inviteranno a festival di quel tipo e ci andrò volentieri, ma se uno all’estero dice a Shaggy o Sean Paul: siete rapper, non la prendono bene, no?»
“Ancora In Piedi” è un testo molto amaro sul tuo recente passato, ce lo spieghi?
«Le critiche che arrivano dai social network e i commenti fuori luogo a volte ti feriscono. Io mi sbatto per far capire il mio mondo, per avere questa missione di divulgazione di un ascolto di musica profondo, non superficiale. Non si può perdere tempo solo a metter “mi piace” bisogna entrare nella musica. Non si trovano i dischi nelle patatine. È anche un modo per avere rispetto delle abilità altrui. Mi ricordo quando andavo a vedere il circo degli acrobati e dicevo a mia madre: questo lo so fare pure io! Ma non è così».
In “Open Bar” invece ringrazi quelli che ti difendono, che ti sostengono…
«Ci sono delle persone che mi seguono sempre dal vivo e su internet, che prendono le mie difese. La musica appartiene a tutti e io penso che debba essere consumata consapevolmente come a un open bar. Ho passato un anno non proprio facile, in cui ho dovuto riprendere contatto con la vita di sempre, con gli amici, mi sono ritirato a fare le cose semplici, ho un negozio a Milano dove lavoro a contatto con il pubblico. Mi ha aiutato molto, mi ha fatto riscoprire che ci sono belle cose intorno a me 175.
Come giudichi la scena musicale nazionale?
174Al momento il mainstream è abbastanza stantio, tranne artisti come Nina Zilli, che io considero molto popolare ma che non rinuncia alle proprie radici che non sono proprio commerciali. Per quanto riguarda il rap oggi è molto diverso da quando ero piccolo io e non c’era il web ad aggregare. Ci scambiavamo le cassette, ci inseguivamo per strada, ci riconoscevamo dal modo in cui eravamo vestiti. Oggi è tutto molto semplice, ti scarichi una base e cominci a provare, ma è un bene, almeno esplori la creatività invece di stare su una panchina a parlare di calcio tutto il tempo».