Torna al San Carlo la stagione di musica da camera: l’appuntamento di domenica pomeriggio vedeva alla prova tre bravi professori d’orchestra del Massimo napoletano, Mariano Lucci (clarinetto), Lorenzo Ceriani (violoncello) ed Alexandra Brucher (pianoforte), apparsi nell’occasione molto concentrati e assai ben affiatati e alla fine premiati da meritati applausi.
Bella e pregnante, intanto, la loro scelta del programma, in gran parte all’insegna della tradizione tedesca, ma anche un po’ di quella italiana: Trio n° 4 in si bemolle maggiore op. 11 di Beethoven, Trio in la minore op. 114 di Brahms, e infine il Trio per il medesimo organico di Nino Rota. Tre compositori distanziati nel tempo, attraverso la cui riproposizione, in sequenza, sembrava offrirsi uno spaccato, se non proprio di storia della musica, almeno dell’evoluzione di questo peculiare e abbastanza misconosciuto genere musicale che è il trio per clarinetto. In questo senso era particolarmente richiesta ai tre interpreti una precisa cognizione storica degli stili ed una duttile varietà di approccio esecutivo, oltre che un’attenta cura timbrica e un calibrato dosaggio di volumi e dinamiche, stante la fondamentale differenza fonica dei tre strumenti, con la naturale tendenza del clarinetto e del pianoforte a prevalere rispetto allo strumento ad arco.
Infatti col Trio beethoveniano, opera quasi ancora giovanile (1798) benché già pervasa di fremiti preromantici e di stilemi propri della maturità del maestro (il secondo tema del primo movimento, la scrittura pianistica in generale, le bellissime variazioni nel tempo finale, sul tema accattivante della “canzonetta” popolare), si era ancora in pieno “stile classico” e nell’ambito della “musica d’occasione”, caratterizzata dalla simmetria delle frasi e dalla logica sonatistica, così come da una certa “indifferenza” rispetto alla designazione del primo strumento “cantante” (la dicitura del manoscritto originale reca infatti «clarinetto, o violino»). Dunque qui era necessaria la perfetta concertazione, in particolare tra clarinetto e violoncello, resa in effetti molto bene dai due solisti, entrambi apparsi non solo ben saldi nella tecnica, ma anche espressivi. D’altronde qui al pianoforte spetta ancora un ruolo di protagonista e in questo senso anche la Brucher è apparsa precisa e nitida, pure lei capace di un suono elegante, particolarmente convincente negli attacchi e nelle code finali, che in questa pagina sono spesso impetuose, e soprattutto nelle variazioni finali, che hanno parti contrappuntistiche complesse.
Con Brahms siamo invece in un mondo ancora tedesco sì, ma decisamente diverso, oltretutto perché egli compose questo suo Trio quando era quasi al termine della propria parabola artistica (1891) e pensando espressamente ad un grande interprete del clarinetto di quel tempo: è insomma un grande saggio in stile tardo-romantico, con una caratterizzazione tematica molto meno spiccata rispetto a Beethoven ed una tipica tendenza a “nascondere” alcuni procedimenti formali tradizionali, ma con in più moltissime asimmetrie ritmiche, dinamiche molto più sfumate e armonie continuamente chiaroscurali; perciò la pagina è tanto più impegnativa e difficile da rendere in modo espressivo e convincente. Ma anche qui l’esito non deludeva: bellissimi, in particolare, alcuni momenti e passaggi (anche tecnicamente impegnativi), come la coda finale del primo Allegro, dove la parte del violoncello sembra emergere misteriosamente come da flutti impetuosi, o come l’Adagio, molto sognante, e come soprattutto il terzo movimento, col suo rapinoso andamento di ballabile viennese.
Un ulteriore balzo temporale in avanti ci consentiva di fare l’ascolto del Trio di Nino Rota (1973), compositore italianissimo, allievo tra l’altro di un maestro cosmopolita come Alfredo Casella, versatissimo da parte sua nella produzione cameristica e molto esperto proprio del trio (avendo costituito per tanti anni il celebre “Trio italiano”). Anche Rota scrisse tanta musica da camera, lungo il corso di una magnifica carriera contrassegnata dalle partiture di musica da film per le quali è universalmente noto e stimato. Questa pagina, almeno alle nostre latitudini, è poco eseguita, come in generale tutto il suo repertorio cameristico, meglio noto all’estero che non in Italia; ma questo è un peccato: colpiscono l’inizio ritmico-motoristico, molto caselliano in effetti, gli amplissimi archi melodici, ottimamente resi dal violoncello, che si dipanano in genere dal registro grave a quello acuto e che ricadono continuamente su arpeggi quasi minimali del pianoforte, con effetto quasi ipnotico, e colpiscono ovviamente le parti più brillanti e virtuosistiche, come il finale “Allegrissimo”, che ha invero tutto il sapore di uno Scherzo dal gusto francese (pensavamo a un Poulenc).
Anche qui tutti e tre gli interpreti si sono fatti valere, così come nel bis finale, due riduzioni per clarinetto di notissimi pezzi d’opera verdiani, fatte apposta, in verità, per esaltare le doti cantabili e l’abilità di fraseggio del Lucci.