Mark Elder al San Carlo di Napoli
Riparte con slancio la stagione sinfonica del Teatro San Carlo: ospite illustre il direttore d’orchestra britannico Mark Elder, bacchetta autorevole ed esperta, che per la prima volta era alla guida dell’orchestra del Massimo napoletano.
Ci ha proposto un programma vario e stimolante, ispirato al colorismo orchestrale tipico dei decenni a cavallo tra i due secoli, e non privo di altri sottili fili conduttori: Scherzo fantastique op. 25 di Josef Suk, Jeu de cartes di Igor Stravinskij e, nella seconda parte del concerto, Sinfonia n. 8 in sol maggiore op.88 di Antonín Dvořák.
I legami intercorrenti tra queste opere sono in parte riconducibili al discorso delle scuole nazionali e in parte alla scelta dei generi. Josef Suk, violinista e compositore ceco (1874- 1935), studiò infatti con il già famoso connazionale Antonín Dvořák, col quale per giunta s’imparentò, avendone sposata la figlia.
Il suo Scherzo fantastique, che è forse la sua opera più eseguita, all’interno di un catalogo comunque non scarno, benché pressoché sconosciuto alle nostre latitudini, è pervaso da un’atmosfera malinconica che evoca il folklore musicale proprio di un paese che, effettivamente, produsse molta ottima musica e molti validi musicisti.
Suk stesso era un valente violinista, membro di una formazione stabile che si esibì in lungo e largo per l’Europa per oltre un quarantennio, il “Quartetto Boemo”.
Ma è bene ricordare che questi artisti boemi, sia Suk che Dvořák che altri ancora, guardavano soprattutto all’Occidente, e che la loro opera fu fortemente condizionata dalla vicinanza con Vienna, con le sue straordinarie tradizioni musicali, così come dal grande sinfonismo tedesco (soprattutto brahmsiano);
ma pure che essa a sua volta condizionò la musica orchestrale austro-tedesca, arricchendola di spunti originali e, più o meno propriamente, “etnici” (viene qui da pensare allo scrittore Elias Canetti il quale, descrivendo la Vienna degli anni Trenta, ne ravvisava la fortissima presenza ed impronta “slava”).
La pagina di Suk, che si immette, almeno formalmente e nominalmente, nella scia di Mendelssohn e Berlioz, trova la sua cifra più caratteristica nell’oscillazione tra un motivo tutto ritmico, proposto in prima istanza dai legni
ma in effetti attraversante tutta l’opera e una eloquentissima melodia in tempo ternario, dall’andamento di valzer, enunciata più e più volte ripresa dagli archi, che in effetti evoca paesaggi incontaminati, o meglio evoca tutto un mondo ed una sensibilità che a quel tempo (siamo nel 1903) non erano ancora incrinati dall’orrore dei grandi conflitti mondiali incombenti.
In particolare, risulta bello e nobile nella melodia, il suono cavato dal maestro Elder dalla compagine sancarliana, apparsa nel complesso in ottima forma, anche perché il gesto direttoriale era preciso e chiaro senza essere debordante.
Se dunque si ravvisa nel complesso di quest’opera una mancanza di unitarietà narrativa, un procedere per continue ripetizioni tematiche e frammentazione in tanti piccoli episodi, ciò non andrà certo imputato alla direzione, né tanto meno ai vari reparti orchestrali, che anzi ben “si passavano” le cellule tematiche gli uni con gli altri.
Nello “sviluppo” c’è stato un gran lavoro dei legni, in particolare con un episodio molto bello in trilli e tremoli, i quali legni non a caso sono stati ringraziati da Elder e invitati alla fine ad alzarsi per primi tra le file. E particolarmente efficace è risultato essere anche il finale, con le sue sonorità enfatiche e in crescendo;
d’altronde, in generale, la direzione è stata molto attenta ed efficace nel mettere in evidenza i contrasti dinamici insiti nella partitura.
La scelta di genere, ossia lo Scherzo, inteso nel senso di “divertissment” fantastico procedente dalla combinazione non solo di temi ma anche di stili e di generi diversi, lega invece Suk a Stravinskij, compositore, del resto, più tardo e ben più complesso ed eclettico, nonché assai più cosmopolita.
Quando infatti il maestro russo compose il suo Jeu de cartes, a metà anni Trenta, concependolo in origine come “balletto in tre mani” (mani, perché la fonte di ispirazione era una partita a carte, dove si sfidavano un “cattivo”, ossia il Jolly, contro i “buoni”, ossia le carte di cuori),
egli dichiarò che le citazioni più o meno scoperte fatte nella partitura (da Čajkovskij a Johann Strauss, da Verdi soprattutto a Rossini) andavano intese nello spirito della “Kursaal Band”, dell’orchestra da strada.
Certo Stravinskij, anche se è quello del proprio periodo “neoclassico”, è sempre Stravinskij, il che significa che qui s’imponeva molta maggiore attenzione esecutiva, un gesto direttoriale più nitido e meticoloso, spesso la necessità di una scansione esatta e metronomica, quasi “suggerita” all’orchestra.
D’altra parte, il lavoro di concertazione, certamente ben svolto a monte, ha avuto complessivamente ragione delle difficoltà intrinseche del brano, della sua frammentazione ritmica, dei suoi improvvisi scarti e delle accelerazioni, del suo caleidoscopico florilegio di danze (marce, valzer e minuetti) e pantomime (“battaglie”, “pas d’action” e “trionfi”) simboleggianti, in guisa quasi disneyana, la sfida tra le carte.
L’orchestra sancarliana ha svolto egregiamente il proprio compito: le tre (anzi quattro) apparizioni del refrain iniziale, quella sorta di fanfara con cui si simboleggia il croupier del tavolo che annuncia di “fare il proprio gioco”, sono scandite con precisione e giusta intonazione, quest’ultima richiesta soprattutto ai fiati (basso tuba e tromboni da un lato, corni dall’altro).
Elder ha tutto ben chiaro e ben dipana la trama complessiva, in un modo che a qualcuno sarà parso perfino accademico.
D’altronde, maggiori sottolineature ritmiche o dinamiche, o forse anche una maggiore scioltezza e tempi più serrati, sono obiettivi difficili da ottenere con qualunque compagine, per un testo musicale così cerebrale, censurato, pieno di incisi e di digressioni e di spunti che appaiono e scompaiono, che sembrano solo accennati e poi come persi per via.
E d’altra parte non sono mancati momenti perfino teatrali, come nella famosa citazione rossiniana della terza “mano”, che appare davvero smaccata, nel momento in cui Elder è sembrato quasi fare un gesto come per voltarsi verso il pubblico e dirgli: “Ecco, ora vi faccio sentire qualcosa che conoscete”.
Chiudeva il programma la Sinfonia n. 8 in sol maggiore, “Inglese”, di Dvořák, eseguita per la prima volta nel 1890 a Praga.
La sinfonia, divisa nei canonici quattro tempi (Allegro con brio, Adagio, Allegretto grazioso, Allegro ma non troppo), ebbe subito buona accoglienza nelle capitali musicali europee, in particolare a Londra, e appunto perciò fu ribattezzata con quell’aggettivo.
I suoi caratteri distintivi sono la bellezza fluida della melodia e la brillantezza del trattamento orchestrale, infatti la mancanza di forti contrasti come pure di una concettosa architettura è compensata dalla brillante strumentazione e dai chiaroscuri dinamici.
Che Elder, inglese così come l’aggettivo affibbiato a questa sinfonia, ci tenesse molto ad essa, era evidente (la dirige a memoria, peraltro):
ha tenuto, in particolare, a farne emergere la pregnanza melodica, come si è visto fin dall’incipit del primo tempo, con quella melodia in sol minore languidamente esposta dai violoncelli che già dalla quarta battuta si “incrina” assai saporosamente con una dissonanza di settima.
Il finale del tempo ha una nota epica che decisamente presagisce le sonorità della successiva Sinfonia “dal Nuovo Mondo”: il pubblico ne è stato trascinato al punto che molti hanno applaudito anzitempo.
Più lirico è il secondo movimento, con un inizio caratterizzato da un bellissimo passaggio “esotico”, ai fiati, ottenuto con passaggio dal do maggiore al fa minore. Più avanti un altro bellissimo episodio, come di una barcarola, in cui si è ben messo in evidenza il violino di spalla (Cecilia Laca).
Al termine, ripetuti e convinti applausi del pubblico, accorso in buon numero, sono stati tributati al maestro, peraltro vagamente somigliante all’attore Anthony Hopkins, e all’orchestra.