«Museica è a metà tra la musica e il museo». Caparezza ha fatto un disco ispirandosi ai messaggi dei quadri contemporanei. Il il rapper pugliese giunge al sesto album con un seguito sempre crescente. Ben fatto: perché sono anni che l’artista dice e canta cose molto più interessanti e vere di tanti suoi colleghi della “canzone ufficiale”. Se i rapper sono i nuovi cantautori, Museica, il titolo del disco, è l’esempio più autentico di questo filone. Anche se poi di rap ce n’è ma è in felice commistione con il folk (guardate il video di Non me lo posso permettere e per il resto dei 19 brani i mix si susseguono, con finanche una ballad.
Museica avrà anche un tour (per le date estive e i biglietti QUI) e prima di iniziare il giro promozionale, abbiamo incontrato il protagonista per farci spiegare l’ultimo tassello della sua carriera.
Cosa vuol dire Museica?
«È a metà tra la musica e il museo, nel senso che l’opera d’arte è sempre a metà tra l’immaginazione e la relatività, tutti concetti che mi sono sempre piaciuti. Ho associato a ogni brano un quadro, e poi mi sono reso conto che stavo costruendo un museo della musica. Ora è una zappa sui piedi per me perché per tutto il tempo della promozione, che dura un anno mezzo per ogni disco, più o meno, tutti vorranno interrogarmi sull’arte.»
Sei un appassionato?
«Credo che quando morirò la cosa che mi mancherà di più sarà la creatività. Mi è sempre piaciuta l’arte, da ragazzino volevo fare il fumettaro poi ho considerato altro. Gli artisti hanno dato la loro versione della realtà sempre, ma credo che da quando è entrata in gioco la fotografia, sono stati gli astrattisti a fare le cose più interessanti, perché non c’era più bisogno di raffigurare la vita come la vedevano. Quindi l’arte che riproduce la realtà ha dato spazio all’arte che è visione artistica. Della prima fase dell’arte ho lasciato solo Giotto, che è un vero precursore con l’invenzione della prospettiva.»
A cui hai dedicato Giotto Beat.
«Sì mi piaceva l’idea di mettere sotto torchio la nostra nazione che non offre più nessuna prospettiva. E perciò mi rifaccio a Giotto come emblema del boom economico degli anni 60 in Italia.»
Come nascono i testi dopo tanti album che fai?
«Il mio primo sguardo all’arte è sempre stato disincantato. I testi invece li scrivo sulla mia pelle, osservando il mondo intorno a me. La realtà ispira, ma il surreale a volte fugge da essa e per me sono valide entrambe le cose.»
Presentando il disco hai parlato di violenza, che vuoi dire?
«Mi riferivo al movimento Dada che nei primi del 900 ha fatto della violenza dell’arte una grande leva. I grandi pensatori sono stati fatti fuori con le armi e non perché destituiti con altri pensieri. Quindi per resistere c’è bisogno di una violenza buona, la violenza dell’arte che i Dada avevano presentandosi sul palco a Zurigo mentre infuriava la guerra organizzando spettacoli provocatori. Loro mi hanno davvero influenzato, erano di rottura. E così ho scritto Comunque Dada, pensando alla Gioconda di Duchamp con i baffi.»
Realtà e fantasia sono sempre la spina dorsale delle tue canzoni, ma come sei ogni giorno?
«Spesso il mondo ti aiuta a fare arte, a volte si subisce la violenza ogni giorno, che è poi l’inquietudine del vivere. Devo dire che il palco è la mia isola felice, quindi quell’aspetto della mia vita è molto diverso dal quotidiano. È molto più isola felice quando sono in studio a comporre, che è ancora un altro aspetto di quello che faccio.»
Con Museica inevitabilmente parli dei luoghi dove si usufruisce dell’arte, i musei che non se la passano bene in questi anni.
«Sono contro i tagli alla cultura, perché di essa ci si nutre. È come tagliare gli alberi in Amazzonia. Io mi sono immaginato proprio un disco da museo, infatti si apre con Canzone all’entrata, con la quale intrattengo i visitatori in fila, e Canzone in uscita, che è un riassunto di quello che hanno visto e un richiamo a tronare in galleria.»
È vero che non punti su un brano in particolare del disco?
«No, perché come nei musei non ci può essere un quadro rappresentativo, anche qui non posso sceglierne uno per tutti. È un disco che merita vari riascolti e che secondo me più che ascoltato, va visitato.»
Hai preso molti rischi per farlo?
«Beh se pensi alla copertina che è nato da una due giorni di grandi chiacchiere con l’autore, Domenico Dell’Osso, che ha fatto proprio un quadro che poi verrà esposto. C’è tanto lavoro dietro, secondo me è un disco spartiacque perché non ha singoli e ha ragione di essere come album intero.»
Un altro estratto è Cover che hai associato alla famosa banana di Warhol creata per i Velvet Underground.
«Se c’è una storia della musica, la si può raccontare solo attraverso delle immagini forti come le copertine. È un inno alla copertina, anche un modo per vedere quanta musica splendida sia stata fatta intorno al mondo in tutti questi anni. Mi sono reso conto che gli italiani o erano fessi o dei geni. Quando all’estero andava il rock da noi spopolava la leggere o quando c’era il punk noi avevamo la mazurca.»
È anche la prima volta che produci da solo un tuo disco?
«No, avevo prodotto il mio esordio, poi ho allargato gli orizzonti e mi sono affiancato a tanti musicisti. L’ultimo disco, Il Sogno Eretico secondo me aveva già dei temi delimitati che mi hanno portato a questo. Se non ora quando? Sono stati degli anni in crescita per me e mi sono reso conto che dopo una certa età voglio fare il produttore.»
Dove lo hai realizzato?
«Tutto a Molfetta e i sono andato a scegliere il miglior sound enegineer, che secondo me è Chris Lord-Alge. Lui ha accettato la mia proposta, io non ci credevo, e così dal 30 ottobre scorso la mia vita artistica è cambiata. Mentre guardavo la tv mi è arrivato un messaggio dicendo: leggi la mail, ho accetto il pc e ho letto che era nel progetto. I miei riferimenti come James Brown, Tina Turner e Joe Cocker hanno tutti lavorato con lui. E adesso a questa lista mi sono aggiunto io! Ci siamo incontrati, ci scriviamo, è molto affezionato all’Italian way, loro lì in America sono precisi. Ma anche molto easy, per niente snob. Lui a Los Angeles ha uno studio pieno di memorabilia….”Ah sì questa è la chitarra di…” mi diceva con fare normale, io mi sentivo estasiato.»