Dalle riflessioni sull’esistenza, sulla natura umana e sui sentimenti profondi dell’anima prende vita il nuovo album del cantautore Fabrizio Squillace, in arte Fab, dal titolo “Maps for moon lovers”, un disco pop-rock impreziosito da seducenti suoni elettronici. L’album, il secondo lavoro discografico dopo “Bless”, è stato pubblicato da Altri Ritmi Records, registrato e missato ai Relic Sound Studios di Catanzaro e masterizzato agli Abbey Road Studios di Londra da Sean Magee, Geoff Pesche e Alex Gordon. Le elaborate sonorità elettroniche che caratterizzano “Maps for moon lovers” sono state realizzate utilizzando il MicroKorg, il Rhodes e l’electric-piano. Il cantautore Fabrizio Squillace ci ha svelato i pensieri intimi ispiratori di alcuni brani, raccontandoci i suoi inizi e gli artisti che lo hanno influenzato musicalmente.
“Maps fors moon lovers” prende vita immaginando un satellite in avaria che osserva l’uomo sul pianeta terra e scopre l’essere umano offuscato dalla rabbia e dall’odio. È un album per riflettere sulla vera essenza della vita?
«È un disco che prova ad offrire degli spunti di riflessione sulla natura umana in relazione alle dinamiche della società attuale. Dinamiche differenti rispetto ad un tempo, mutate in maniera incredibile nel giro di pochi anni soprattutto per effetto dei nuovi mezzi offerti dalla tecnologia. L’esasperazione della ricerca della notorietà, modi peculiari e discutibili di comunicare, l’accento posto smodatamente sull’aspetto fisico. Temi che vengono fuori da questa manciata di canzoni, otto storie interpretate da altrettanti personaggi in cerca di un equilibrio che spesso si rivela precario. C’è un distacco consapevole, una presa di distanza dalle loro vicissitudini, perché mi intrigava l’idea di attribuire alla scrittura di questo disco un taglio narrativo, quasi vicino alla cronaca. I protagonisti di “Maps for Moon lovers” si rivelano audaci, immaturi e fallaci. Nulla di più vicino alla realtà che ci circonda».
Il brano The same floor celebra l’incontro di due anime che si ritrovano. Quale emozione o esperienza di vita ti ha ispirato?
«L’idea, in me molto radicata, che la vita che viviamo nel contesto terreno rappresenti solo la piccola parte di un percorso ben più lungo ed accidentato. Credo che le nostre anime vivano più volte e attraversino molteplici momenti di confronto andando ben oltre la singola esistenza. La morte non è che una porta, e nulla più. Siamo fatti di energia e l’energia non svanisce, semplicemente si trasforma. Penso tutto ciò perché altrimenti non saprei dare una spiegazione ad alcune esperienze vissute fin’ora e questa ricostruzione mi pare la più plausibile. Alle volte ci capita di riconoscere come familiari i tratti di persone che incontriamo per la prima volta, una familiarità strana, che io in prima persona ho avvertito mille volte. C’è qualcosa in queste vicende che mi sussurra un percorso di evoluzione, un processo lungo e faticoso che la maggior parte di noi ignora. Siamo qui per crescere come individui e l’incontro con qualunque persona, anche con quella che ci può apparire come la più spregevole, ci fornisce una possibilità di capire, comprenderci ed evolverci».
Sleep è una ninna nanna rock che rivive le estenuanti traversate in mare di uomini, donne e bambini verso terre sicure, nella speranza di trovare accoglienza e solidarietà. Hai un legame particolare con questo brano?
«Un legame assolutamente intenso. Ricordo benissimo la sera in cui la scrissi, di getto, dopo aver visto al telegiornale le immagini di questa bambina annegata nel Mediterraneo. I suoi occhi immobili, la pelle biancastra, le braccia penzolanti. Una scena tremenda. Fu talmente forte l’emozione provata che sentii il bisogno di dire qualcosa in merito e di farlo in maniera diversa. Pensai se avessi avuto una figlia di quell’età, cosa avrei potuto dirle in merito se lei si fosse trovata insieme a me di fronte al televisore. Mi venne in mente questa ninna nanna, intrisa di dolcezza e rabbia, in cui un padre cerca di raccontare alla piccola figlia queste vicende senza nasconderle nulla. E ad un certo punto si affida a lei, che rappresenta il futuro, implorandola di “insegnargli ad affrontare i suoi sbagli”. Un brano scritto qualche anno fa ma che oggi, purtroppo, è ancora prepotentemente attuale. Viviamo tempi cupi, specialmente in Italia, che sto scoprendo essere un paese razzista più di quanto potessi immaginare. E la cosa mi rattrista enormemente».
Minuteman affronta il dramma della guerra e le sue disastrose conseguenze. È una critica severa!
«Questo missile partito dagli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda fa il giro del globo e si anima, inizia ad osservare il pianeta che sorvola interrogandosi sull’utilità del suo scopo. Dovrebbe portare morte e distruzione per rovesciare un ordine che, in realtà, rimarrà consolidato e integro. I bambini applaudono e i cardinali perdono la fede, e anche se pare precipitare l’ordigno continua la sua folle corsa ad altezze sempre più alte, minacciando il globo da altitudini improbabili. Una storia sui generis che mi fu ispirata da un documentario sulla guerra fredda e dall’impatto psicologico che gli arsenali nucleari avevano sulla gente ai tempi di Reagan. La preoccupazione che potessero essere utilizzati, al di là del loro concreto lancio, rappresentava un’arma incredibile. Una dinamica malata e tetra. Per questo il Minuteman protagonista del brano sembra precipitare ma in realtà non cadrà mai. E tutto ciò non può non iniettare nelle sue descrizioni una consistente dose di feroce sarcasmo».
“Maps for moon lovers” è un disco pop-rock arricchito da suoni elettronici che accompagnano l’ascoltatore verso luoghi sconosciuti…
«È stata un’operazione complessa e delicata ma decisamente affascinante. La sfida del futuro, a mio avviso, rimane quella di coniugare i suoni tradizionali del rock con l’elettronica e riuscire a individuare il giusto compromesso. Pensiamo agli U2 di Pop o ai Radiohead di Kid A, esperimenti riusciti che hanno colto nel segno spingendo la musica rock verso una nuova strada. Iniettare sonorità elettroniche in confortevoli ambienti rock stimola l’ascoltatore ad esplorare nuovi territori, ad utilizzare un linguaggio diverso. In un’epoca in cui il rock sembra aver detto tutto ritengo che la strada da percorrere sia proprio questa. Occorre coraggio, tanto coraggio».
Da quali artisti ti sei lasciato influenzare e plasmare musicalmente?
«Tanti e diversi tra loro perché da sempre ascolto musica di ogni genere, senza pregiudizi di sorta. Penso ai già citati Radiohead, con la loro voglia di sperimentare, a Damian Rice, con la sua intimità lacerante, agli Arcade Fire, un contenitore caleidoscopico di audaci melodie, e ancora agli U2 degli esordi, con il loro impegno e immediatezza. Da ogni artista ho cercato di rubare quello che aveva da offrirmi in termini di familiarità, di vicinanza sonora e compositiva. Adoro David Gray, con quella voce che pare venuta fuori da una rivolta andata a male in un sobborgo di Londra. Un grido malinconico capace di illuminare la notte più scura».
Quando ti sei approcciato per la prima volta alla musica?
«Fin da piccolo, ascoltando i dischi di mio padre. Vinili di Pink Floyd, Beatles, Battisti, Elton John. Ricordo che li rigiravo tra le mani e mi parevano contenere un enorme segreto. Poi venne l’adolescenza, i tempi delle prime lezioni di chitarra, della ricerca spasmodica degli accordi nelle malandate musicassette dell’epoca. Sarà l’accordo giusto, quello definitivo, erano le domande. E poi iniziai a suonare con la mia prima band, formata assieme a Carlo e Saverio Cefalì, personaggi storici della musica catanzarese. Mille cover, centinaia di locali, innumerevoli piazze. Un’esperienza incredibile, la mia vera gavetta. Imparai a stare davanti ad un pubblico, faticosamente, a mostrarmi per quello che ero, compresi il senso del ritmo ed il valore profondo dell’autenticità. La gente vuole quello che sei davvero, non ciò che provi ad essere. Se tenti di barare il gioco finisce. È una regola, questa, che ogni musicista deve tenere in grande considerazione».
Cosa rappresenta per te il rock?
«Un linguaggio. Un potente linguaggio. È un genere che ho sempre amato perché in grado di offrire un punto di vista diretto ed immediato, senza fronzoli, senza scorciatoie o sotterfugi. Il rock ha una capacità incredibile di reinventarsi, di mutare pelle, di trovare alchimie impensabili con altri generi. Sa essere il luogo perfetto per un urlo, per una lacrima, per una protesta sociale o politica, per una ninna nanna piuttosto che per una dichiarazione d’amore. La sua storia non è poi così lunga ma possiede una forza che nasce da molto lontano. Per me è stato consolatorio, avvilente, stimolante, rigenerante e salvifico. Devo riconoscere che mi ha salvato la vita in più di una circostanza e sono convinto che continuerà a farlo».