Sono le tre del pomeriggio e il centro storico di Napoli è bello come non mai. Oggi sono particolarmente emozionata: intervisterò un incredibile pianista partenopeo. Un talentuoso artista che, in pochissimo tempo, è riuscito a portare la sua musica e la sua Napoli al Royal Albert Hall: Bruno Bavota.
Mentre aspetto che arrivi, decido di riascoltare le tracce più belle dei suoi lavori per concentrarmi sulle domande da fare. In un attimo però, mi perdo tra le sue note e non mi accorgo che quel ciclista spensierato, che indossa un paio di cuffie e mi sorride pedalando a ritmo di musica è proprio lui.
Gli sorrido di rimando, mentre penso che tra pochi minuti busserò sul serio alla porta de “La casa sulla luna” e ad aprirmi sarà proprio il padrone di casa.
Da quando sei artisticamente sbocciato, te ne hanno fatte di interviste. Tutti si focalizzano molto su quello che fai adesso, io però vorrei prima chiederti com’è iniziato il tuo percorso…
«La musica nella mia vita è entrata nell’agosto del 2008: lo stesso giorno in cui ruppi con la mia fidanzata storica, arrivò a casa una chitarra che tempo prima avevo ordinato su internet. E così, mentre da un lato avvertivo un enorme vuoto interiore, dall’altro sentivo di aver ricevuto in dono un oggetto che mi avrebbe aiutato e salvato la vita. Il mio rapporto con le sei corde però non durò molto: la musica riempiva i miei vuoti, ma la chitarra non era quello che cercavo.»
E così hai scoperto l’amore per il pianoforte…
«Sì, ricordo perfettamente il giorno in cui misi per la prima volta le mani sul piano: ogni volta che il martelletto batteva sulla corda, la nota che producevo mi colpiva come una piacevole “coltellata”. Era una sorta di struggimento: stavo male e subito dopo mi sentivo bene. Gli 88 tasti iniziarono a farmi impazzire: suonavo in qualsiasi momento della giornata. E più suonavo, più mi sentivo rinascere: è stato così che ho scritto poi il mio primo brano “L’abbraccio”.»
Ricordi la sensazione che hai provato quando hai composto il tuo primo brano?
«Il mio primo brano è stato “L’abbraccio”. Ricordo che quando lo completai, mi commossi fino alle lacrime. Concretizzare la prima composizione mi fece capire che più che rimpiangere il passato, dovevo ringraziarlo. Se non avessi avuto le mie delusioni, se le cose non mi fossero andate in quel modo … adesso sicuramente non sarei qui.»
E dopo “L’abbraccio” hai composto tante tracce che hai raccolto poi nel tuo “Pozzo d’amor” …
«In realtà in quel pozzo ho raccolto tutto l’amore che avevo e che mi era stato negato. Il primo album è stato un po’ malinconico in effetti, però non tutto il mio mondo girava intorno al pozzo: ho sempre guardato in alto. Ogni volta che cado a terra, non posso fare a meno di puntare gli occhi al cielo.»
Un cielo che torna anche nel secondo cd: “La casa sulla luna”. Un album in cui si avverte la tua maturità artistica. Com’è nato questo nuovo progetto?
«Credo che “La casa sulla luna” si fondi su un suggerimento che sussurro sempre a me stesso e che vorrei diffondere, attraverso la mia musica, al mondo intero: mai dimenticare i propri sogni.
Ho composto ogni brano come fosse un inno all’amore, quello vero e profondo che ti porta a concretizzare i desideri, a fare quello che vuoi e non quello che devi.»
Attraverso i tuoi brani risulta impossibile non accorgersi della tua passione per gli elementi naturali. Da dove nasce questo amore?
«È molto semplice: io credo che gli elementi naturali siano essenziali, siamo noi quelli fuoriposto. Senza anche solo uno di essi non potremmo vivere, mentre la natura di per sé va avanti anche senza di noi. Anzi, forse senza di noi va avanti anche meglio. In realtà sono convinto che solo una fusione con la natura ci aiuterebbe a raggiungere la giusta armonia e perfezione.»
Ti hanno paragonato a Einaudi. Ci sono altri pianisti che ami particolarmente e che ti aiutano a trovare la giusta ispirazione?
«Amo molto il pianista dei Balmorhea, inoltre mi sono avvicinato tantissimo alla musica classica. Sono particolarmente legato ai giri armonici di Bach e soprattutto al Notturno n.2 di Chopin.»
Un’altra cosa che ti differenzia dalla maggior parte degli artisti contemporanei è la tua scelta poco commerciale nei titoli dei tuoi brani. Puoi parlarci soprattutto de “L’uomo che rubò la luna”?
«In questo brano, anche attraverso il titolo, ho cercato non solo di sintetizzare una storia, ma anche di far provare agli altri quello che ho provato io nel venire a conoscenza di questa storia.
Nel 2002 un membro interno della NASA rubò 100 grammi di frammenti lunari per regalarli alla sua fidanzata. Alla fine il ladro fu anche arrestato, però credo sia impossibile che qualcun altro prima di lui abbia mai pensato a un regalo del genere: per me resta un genio! Questo gesto mi è piaciuto talmente tanto che non ho potuto fare a meno di dedicare un brano al suo romanticismo.»
E mentre a te è piaciuto molto il gesto, a tantissime persone è piaciuto il brano insieme all’intero album… tanto da farti arrivare a suonare al Royal Albert Hall di Londra! Com’è stato?
«Non mi sarei mai aspettato di andare a suonare al Royal Albert Hall, quando me lo dissero non potevo crederci. Pensare che le stesse note suonate tra le mura di casa siano state apprezzate a Londra è un qualcosa di difficile da spiegare a parole. Fino a tre anni ero nella mia stanza, poi mi sono ritrovato a suonare al pianoforte di Elton John!
Tra l’altro ho da poco saputo che sono stato chiamato per partecipare a un nuovo festival: l’8 novembre 2013 tornerò a Londra.»
Nuovi progetti discografici in programma?
«Non posso ancora rivelare molto, però sto già lavorando alla produzione del mio terzo album. Come hai sottolineato prima, amo gli elementi naturali e anche questa volta saranno al centro della mia musica. Diciamo che dopo le stelle, il sole e la luna… sto focalizzando la mia attenzione sul mare.»