Va bene che This is What I Do, primo album dopo un decennio di dj set e cover, è stato accolto trionfalmente dalla critica britannica. Va bene pure l’emozione di rivedere Boy George in azione su un palco con una band che assomiglia più a una blues band che a un ensemble pop. Ma fermare continuamente lo show, unico in Italia ai Magazzini Generali di Milano, tra l’altro di un’ora e mezza scarsa, per beccare chi filma, è un po’ assurdo. Soprattutto nella digital age, quella che viviamo e che permette a tutti di filmare e “storicizzare” tutto istantaneamente, e anche soprattutto di rimpinguare il conto in banca di leggende come George ‘O Dowd pescando in continuazione in ogni angolo del mondo a ogni orario dal suo immenso repertorio di 30 anni di carriera su iTunes. Gioie e dolori di internet che andrebbero accettati con filosofia. «Ho viaggiato fin qui per fare la performance, rilassatevi e godetevi lo show al posto che filmarlo» grida Boy George. Non fa una piega la consecutio, ma c’è di peggio nella vita.
Non ha molto senso arrabbiarsi e frenare sull’incipit “Karma Chameleon” per una lucina puntata in faccia, proprio su quell’hit che fa ancora ballare tutti ed è un interessante arresto del reggae flow che Boy ha deciso di adottare per questa rentrèe. Un po’ monotematico, questo show, ma la venatura black c’è sempre stata nel suo dna musicale, con risultati alternanti, visto che quando fa soul la voce e l’attitudine ne giovano di più.
George, dimagrito e placato, è furbo, è stato sui palchi di tutto il mondo, ai party più prestigiosi con i potenti del globo e in carcere, per strada, squattrinato, riabilitato, riassunto a modello. Insomma una furbizia che gli deriva dall’esperienza e quindi sa come accontentare il pubblico milanese, con King of Everything che è il suo nuovo brano di punta, ma anche con un’insolita cover di T-Rex Get It On, abbastanza rock, che lo diverte. Del suo periodo solista sceglie la celebre Everything I Own, che è una genialata di scrittura, e anche un’incursione nella fase psichedelica/indiana di fine anni 80 con Hare Krishna. Niente The Crying Game, che gli dette credibilità da solista in America (eh sì, perché lui era un’icona di stile anche lì). Dei Culture Club si avventura pericolosamente in Victims, solo piano e voce, che non regge ma emoziona per la sua imperfezione. Con la band affiatata di 9 elementi e supporto scenico scarno, questa era la reunion di Boy George che molti aspettavano: con il suo vero mestiere.
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