Paolo Tocco torna sulle scene con “Ho bisogna di aria” (IRMA Records), anticipato dai brani “Arrivando alla riva” e “La città della camomilla”. Il disco esce a due anni di distanza da “Il mio modo di ballare”, selezionato tra le migliori 50 opere in assoluto dal Club Tenco. “Ho bisogno d’aria” si compone di 11 tracce, in cui il cantautore abruzzese grida, racconta il bisogno di riscatto nei confronti di una società fatta di ipocrisia e falsità, dove i valori di un tempo sono stati schiacciati. Quasi interamente registrato dal vivo, il disco trascina l’ascoltatore in un viaggio spirituale – tra parole e musica – intimo e riflessivo, in cui la rabbia si alterna alla preghiera e alla voglia di semplicità. Anche per questo nuovo lavoro, si ripete la formula “disco e libro”. “Ho bisogno di aria” è anche un romanzo edito da Lupi Editore.
Questo nuovo album è il terzo lavoro discografico che arriva dopo “Il mio modo di ballare”Cosa rappresenta per te rispetto ai due precedenti?
«Rappresenta la mia personalissima maturità. Spero lo sia in senso positivo e che lo sia per il pubblico che avrà il piacere di ascoltare e leggere il romanzo. Non so, non posso parlare per gli altri ovviamente. Parlo per me. Sento che con questo lavoro ho trovato una responsabilità e una consapevolezza di me assai più adulta di quanto accaduto fino ad ora. Come se a vederli oggi, i lavori precedenti sembrino più giocattoli del solito. E questo non per deriderli o in qualche modo rinnegarli. Tutt’altro. Davvero penso sia cambiato il mio modo di guardare alla canzone e alla scrittura. E questa sensazione non è certo in una fase di soluzione… penso di aver intrapreso una grande trasformazione, mia personale, che preme e che pretende ancora novità. Non vedo l’ora di riprendere a scrivere, ne sento proprio il bisogno ora».
Nelle tue canzoni parli di eventi drammatici che interessano l’Italia tutta, il dramma e la tragedia degli sbarchi, si parla di amore, di prostituzione, della vita di una città di provincia. Uno sfogo, ma anche una preghiera che si sviluppa in un lavoro da ascoltare e leggere e magari da divulgare anche sui social da te tanto odiati…
«Da me tanto odiati ma alla fine ci sto incollato tutto il santo giorno. Amore ed odio, un equilibrio irrisolto tra il lavoro e le sue necessità da una parte e la voglia di contaminazione e verità genuina dall’altra. Amen. Non ho la presunzione di aver scritto canzoni comuni alla vita di tutti e non ho certo l’arroganza di conoscere le parole giuste per insegnare qualcosa a qualcuno. Le mie sono canzoni descrittive di quello che è il mio personalissimo punto di vista. Come io vedo la tragedia di un terremoto e di come resto fermo davanti alle immagini dell’ennesimo sbarco di clandestini… e via dicendo. Non so quindi quanto gli altri si ritrovino dentro questi messaggi. Di certo punto il dito spessissimo contro le maschere che indossiamo ogni giorno, tutti quanti, verso il perbenismo ed il buonismo che ci è comodo per sciacquare le coscienze e voltare lo sguardo altrove. Lo faccio io, lo facciamo tutti. Chiuderei la risposta con l’ultima frase di “Bella Italia”, la seconda canzone del disco: “Ma chi l’ha detto che sotto le macerie ci stanno solo i Santi… che poi alla fine sotto le macerie, ci stiamo tutti quanti!”».
“Ho bisogno di aria” è anche un romanzo, un libro in cui si evince il bisogno di gridare di “vomitare” tutto quello che in qualche modo non ci appartiene e che ci fa sentire esclusi da questa società che nel tuo libro definisci “circo di burattini e burattinai”. Quale pensi sia la strada giusta per cercare di recuperare certi valori e certi significati di un passato ormai andato, ma che non vede un futuro?
«Frasi dure. Certamente l’intento di esagerare è sfacciato, sperando di smuovere qualcosa in chi mi ascolta. Alla fine non è mai cosa buona fare di tutt’erba un fascio ma è anche vero che se non prendi una posizione – a volte estrema – resti nel buonismo di cui sopra, nella terra di nessuno. Per rispondere alla tua domanda direi che dovremmo tutti SPEGNERE LA TELEVISIONE e tutti i grandi mezzi di informazione. La musica, la cultura ma anche la cronaca. C’è tantissima sporcizia che spesso viene incanalata dittatorialmente nelle nostre case, senza diritto di replica, non ce ne accorgiamo ma concimano nelle nostre vite e pilotano e sagomano e alla fine decidono la nostra cultura, il nostro sapere, le nostre opinioni. Accendere la televisione, dai Talent ai vari talk show (anche di politica) mi annoia e mi imbarazza. Dal lato artistico non oso immaginare a quale fondo siamo destinati se la musica oggi è sempre più alla stregua di una gara agli Highlander, ne resterà uno soltanto, il migliori di tutti. Quanti giudici!!! Addirittura i primi imbecilli che fanno milioni di visualizzazioni con video davvero fatiscenti sono chiamati a GIUDICARE. Non oso immaginare dove si arriva se oggi i ragazzini sono formati da questi esempio, dove viene veicolata solo la musica plastificata del grande commercio e dove non si ha idea di quanta ricchezza ci sia in giro. Un giorno una giornalista di una grande testata non mi poteva dare retta perché doveva pubblicare un articolo sugli Sms tra la Ferragni e Fedez: sarà vero amore? A questo siamo arrivati e nessuno fa niente. Anzi: tutti clicchiamo, vogliamo, seguiamo e perseguiamo questa condizione culturale. È il solito discorso che si fa quando si mette a paragone il grande centro commerciale o il piccolo negozio artigiano. Davide contro Golia. Eppure facciamo file di ore per ingozzarci di quei panini di plastica consci dello schifo che ingeriamo invece che comprare qualcosa di genuino dal piccolo negozio lungo il corso. I centri commerciali pullulano e i piccoli artigiani chiudono. E la colpa è nostra e non della politica. La cosa che più mi fa paura è vedere come siamo diventati inermi di fronte a logiche così evidenti e distruttive. Burattini lobotomizzati. Quanti libri potrei citarti in merito. Ascoltare queste cose da un Paolo Tocco qualunque fa meno scena del sentirle pari pari da un Premio Nobel per la Letteratura».
Il romanzo “Ho bisogno di aria” è una fotografia a colori, di quelle piene di effetti, a tratti volgare, che guarda con tristezza e nostalgia ad una fotografia in bianco e nero, come non se vedono più. Sembra la pagina di un diario scritta tutta di un fiato…Il libro nasce dopo il disco, in quanto tempo realmente è stato scritto? Hai avuto dei dubbi mentre lo scrivevi?
«L’ho scritto di getto in 3 notti circa. Mai avuto un sussulto, mai avuto un ripensamento. Anzi forse sono stato anche troppo buono in alcuni passaggi. Il linguaggio volgare è solo il mezzo stilistico che ho scelto di usare, quasi istintivamente anche questo, forse frutto inconscio delle mie letture di questi ultimi mesi. La Beat Generation è stata una vera e propria epoca in cui la scena delle cose non interessava a nessuno dei cosiddetti beatniks. Il messaggio, scheletrico, essenziale, diretto, senza pulizia, senza freni, senza maschere. Pensa solo a come trattavano il denaro: puro e bieco strumento per scambiare oggetti. Niente fama, nessuna gloria, inesistente interesse per il potere personale. E anche se nel disco non ci sono volgarità come nel romanzo, il modo con cui queste canzoni cercano e vorrebbero arrivare alle persone è esattamente lo stesso: diretto, pulito o sporco non importa, basta che non ci siano le scarpe nuove della festa. È stato un mettersi a nudo e poi restarci anche. A dirla tutta ancora mi sono rivestito…».
Ognuno di noi ha bisogno di aria…e di inseguire i propri sogni qualsiasi essi siano. Qual è il tuo sogno da cantautore, produttore e scrittore?
«Essere riconosciuto per quello che faccio. Occhio: non sto intendendo di voler diventare ricco e famoso. Questo piace a tutti ed è ovvio dirlo. Sinceramente vorrei invece che la gente mi riconoscesse non per la fama ma perché faccio bene quello che faccio. Oggi si diventa famosi perché hai più like o perché sei più visibile. Io voglio diventare “famoso” perché imparerò ad essere bravo. Il mio target finale è imparare a far bene davvero quello che sto facendo da anni… in ogni cosa che porto a termine ci vedo dentro evoluzione, diversità, crescita mia personale. Non vedo l’ora di vederne la compiutezza, l’apice della costruzione. Ha ragione anche chi sostiene che il viaggio non deve mai finire, non si finisce mai di crescere e di imparare. Verissimo. Ma è anche vero che arriva un punto in cui il crescere è un colore ulteriore da dare a qualcosa di importante che hai già solidificato. Bene: è questo il mio sogno. Che tradotto significa diventare un uomo migliore, anche sotto il punto di vista artistico e culturale. Insomma è come sognare di fare l’astronauta!».
Da Ingegnere Elettronico, dopo un tradizionale percorso di studi ti avvicini alla musica. Ma com’è nata questa passione?
«Non è nata. C’è sempre stata. Ho sempre girato con un mazzo di carte nelle tasche e una chitarra a tracolla. Chiusi i libri di fisica e di matematica aprivo la mia moleskine. Ho la foto della mia prima canzone… ho sempre provato a scrivere cose mie, io non so suonare niente che non sia mio. Se ci sedessimo attorno ad un fuoco io non saprei farti cantare neanche “Alba Chiara”. Sono diventato un ingegnere del suono e ho tradotto questo nel mestiere della musica, come produttore, come promoter, come cantautore. I miei due dischi passati li ho prodotti in due studi di registrazione che ho messo su nel tempo. E anche qui potremmo stare le ore a raccontare…».
Hai studiato per anni Cartomagia e Prestigiazione. Se dovessi pensare ad un numero di magia in riferimento a quanto descritto in questo tuo nuovo lavoro, cosa faresti?
«Ne “La grande bellezza” c’è un mago che fa sparire una giraffa. Sicuramente questo fa scena e stupisce e fa restare a bocca spalancata. Questo era il mio disco “Il mio modo di ballare” che ha un suono e una produzione di grande livello. Oggi sono tornato alle monetine. Far sparire davanti agli occhi una monetina che avevi tu nelle tue tasche, senza maniche lunghe, senza fili, senza scatoline dai doppi fondi e senza alcuna preparazione. Io, tu e le mani nude. Il tempo di un silenzio e puff: non esiste più la monetina. Questo non fa solo stupire, questo leva la terra sotto i piedi. Perchè fare un disco perfetto che suona bene e che ha potenza industriale bisogna avere gusto (certamente) ma anche solo computer buoni. “Ho bisogno di aria” è un disco semplice, che abbiamo realizzato con le nostre mani. Sono canzoni registrate spesso dal vivo, con le sfumature e gli errori nostri, gli errori di persone e non di macchine. Sono tornato artigiano a celebrare i suoi limiti e i suoi piccoli sogni. Questo disco è come il mago che ti fa sparire una monetina. Siamo solo io e te. Una monetina e una chitarra. Non serve altro per emozionarsi davvero. E se mi stai a sentire forse dico anche cose intelligenti. Forse. Ma qui mi fermo che ora tocca a voi…»