Abbiamo conosciuto Antonio Righetti grazie ai Rocking Chairs, tempo dopo ha lavorato invece come bassista fianco di Luciano Ligabue. Adesso lo ritroviamo con un disco tutto suo: “Angeli e Demoni”, un percorso di 13 tracce in cui tutto è all’insegna delle contrapposizioni. Un album senza etichette in cui si sente dalla prima all’ultima nota quanto questo musicista non abbia paura di osare e sperimentare.
Nonostante tu sia anche autore, non hai scritto i testi di questo tuo ultimo cd: come mai questa scelta?
«Innanzitutto mi piace sottolineare che anche se i testi non sono miei, le musiche invece sono totalmente mie. C’è da dire comunque che io sono soprattutto un writer inglese, difatti quando all’inizio mi avevano proposto un cd in italiano non sapevo se accettare. Adesso però posso dire che il risultato finale mi è piaciuto molto. Grazie all’italiano e alle parole di Sara Del Popolo, infatti, ho avuto possibilità di rimescolare le carte e rimettermi in gioco.»
Qualche giorno fa sulla tua pagina facebook hai scritto che “Angeli e Demoni” è primo in Belgio ma non in Italia …
«Si, in realtà non era una notizia quanto una provocazione che ho fatto girare sui social e mi fa piacere che sia riuscito ad attirare l’attenzione di moltissime persone. Il fatto è che noi italiani siamo i primi a non credere nella nostra musica, i primi ad autolimitarci. Credo sia giunto il momento di guardare oltre i confini: in Italia è difficile affrontare un discorso di musica indipendente e con la mia provocazione ho tentato di ragionare proprio su questo…»
Cosa credi manchi al nostro paese a livello musicale?
«Gli italiani sono vittima di un’alfabetizzazione musicale limitata. L’ascolto da noi non è una cosa molto diffusa e la musica non occupa uno spazio importante nella vita delle persone. A me capita di lavorare molto all’estero e ogni volta che sono fuori mi rendo conto che fuori dai confini italiani la gente consuma musica in maniera quasi compulsiva.»
Ti senti una vittima di questa cattiva alfabetizzazione?
«Assolutamente no, soprattutto perché faccio musica dal vivo. Mi piacerebbe solo che si desse più risalto al fatto che dietro le canzoni ci sono storie da raccontare, tutto qui. Siamo cresciuti in delle scuole dove ci hanno insegnato a suonare il famoso “flautino di plastica”. Credo sarebbe più produttivo insegnare ai ragazzi che la musica è la musa più importante, misteriosa e potente. Tutti dovrebbero ascoltare tanta musica a prescindere dal fatto che un poi voglia imparare o meno a suonare.»
Tornando al cd … c’è un brano tra tutti che mi ha colpito ed è: “Proverai”. Questa traccia, infatti, sembra un tormentone estivo che però porta con sé un messaggio incredibilmente intenso…
«Credo tu abbia messo in risalto una questione che in qualche modo ho individuato anche io riascoltando il disco. Durante la registrazione di questo lavoro non ho avuto un solo momento in cui mi sono bloccato e ho detto: “Oddio questo è un po’ troppo lontano dalle mie idee”. In ogni singola traccia ho messo tutto quello che avevo dentro. Ed ecco che “Proverai” risulta anche a me un tormentone nel quale ho voluto esaltare il mio stile black grazie al basso elettrico che si occupa molto del ritmo e della melodia.»
Ti rendi conto che sei riuscito a fare un disco che non è “etichettabile”?
«Si, è vero. Traccia dopo traccia passo da un genere all’altro con estrema facilità. In questo lavoro ho raggiunto dei punti dove non mi ero mai spinto, soprattutto nelle atmosfere. Il fatto è che solitamente siamo noi i primi censori di noi stessi e delle nostre capacità. Parlando anche di me, alle volte il mio concetto di me stesso e della mia musica diventa poi un vero e proprio blocco espressivo e io qui ho voluto essere quanto mai libero!»
Per molto tempo sei stato il bassista di Ligabue, ti etichettano ancora solo così? E’ stato facile “liberarti” da quel ruolo?
«La facilità che ho avuto sta nel fatto che non è un grosso problema partire con nuove proposte. Io mi ispiro molto a personaggi come Bob Dylan, Lou Reed … persone che disco dopo disco demolivano l’idea che il pubblico si era fatto di loro. Non mi confronto con John Lennon che dopo i Beatles si è costruito una sua carriera di collaborazioni e provocazioni, ma voglio comunque seguire questa scia…»
Hai già iniziato il tour? Come sta andando?
«In realtà, come amo dire, la promozione radio e stampa è tutto un pretesto per andare a suonare dal vivo. Io non faccio un tour, faccio “rock”, che è un concetto indefinibile ma sicuramente è un qualcosa che si può fare solo live. Come hai potuto notare, amo parlare della musica bella … ma poi soprattutto amo suonare ogni volta che ne ho l’occasione!»