Attrice magnificamente reale e spontanea, istintiva, impetuosa, sensibile, comica, drammatica, Antonella Morea si è costruita da sola, su un palcoscenico che ha conquistato, espugnato con la forza, con il suo temperamento artistico accattivante e la sua grande bravura. Una grande donna che ha in se il teatro, recita con tutta se stessa, con tutto il suo essere, con un’immediata comunicazione verso il pubblico.
Dopo averla vista al Pompeilab, in “Anna Cappelli” di Annibale Ruccello, per la regia di Fortunato Calvino, vedremo Antonella nel circuito del Napoli Teatro Festival, sarà la pazza sfrenata Ludovica in “Polvere Ritorneremo”, il 19 e 20 giugno a Pietrarsa, e, nell’opera musicale “Il maestro di cappella dei mendicanti”, il 10 e 11 giugno. Il prossimo anno la vedremo al cinema in “I milionari“, del giovane regista Alessandro Piva, film sull’ascesa del clan Di Lauro.
Prossimo e primo appuntamento, il 10 e 11 giugno, sarà per la rassegna Napoli Teatro Festival con “Il maestro di cappella dei mendicanti” di Mariano Bauduin…
«Tratta dalla Beggar’s Opera di John Gay con innesti di canzoni dei Beatles, uno spettacolo molto british.
Noi siamo i mendicanti che vengono torturati nelle carceri di Newgate, ma il tutto è una metafora, è la condizione del teatro di questo momento, dove ci sono tanti direttori artistici, persone senza merito, addirittura, si dice: cretini misteriosamente importanti. Per cui noi siamo legati a questi strumenti di tortura e questa condizione ci porta a giocare tra noi, a fare teatro. Io gioco a fare la signora Peachum, l’altra gioca a fare mia figlia, c’è Polly, Lucy, il tutto s’innesta con l’opera seria di Cimarosa, perché arrivano, improvvisamente, in questa prigione, i maestri dell’Orchestra Reale, quelli veramente pagati che cozzano con noi, poveri disgraziati, che aspettano mesi e mesi per essere pagati, che devono gettare il sangue per fare qualcosa, mentre loro iniziano a protestare e, a fare lo sciopero, perché vogliono il loro leggio, la loro sedia. È un kolossal di quasi ottanta persone, con un bellissimo coro di bambini, c’è un bambino protagonista eccezionale, bravissimo, Mariano Bauduin, che è il regista, ha preso tutti questi bambini e i ragazzi, che fanno corsi di poliritmia, dalla sua scuola di recitazione, di cui il direttore artistico è Roberto De Simone.»
Ancora per il Napoli Teatro Festival, il 19 e 20 giugno, reciterai nella commedia divertente “Polvere ritorneremo”…
«Un testo nuovo di Claudio Buono, che ha vinto qualche anno fa La corte della formica, la regia è di Roberto Nicorelli e sono due amici molto bravi, che lavorano sempre insieme, con me ci sarà Viviana Cangiano, Massimo Andrei e Raffaele Imparato.
È la storia del gruppo musicale, Shangri-La, tre pop star di cui una improvvisamente muore, il leader del gruppo, lasciando a sorella e figlia, quindi zia e nipote, un testamento, sul quale si dice che, se le due vogliono avere l’eredità, devono arrivare prima in classifica con un brano inedito. Poiché lei ha scritto sempre le hit, loro due non ci riescono, cantano una pallida cover di Mina, ed hanno un risultato pessimo e, il critico musicale, la voce recitata di Leopoldo Mastelloni, le fa una pezza. Così si rivolgono a un santone, una sorta di sciamano, che è Massimo Andrei, che si rivolge alle anime dei cantanti defunti e da lì iniziano una serie di peripezie, con queste due pazze sfrenate, siamo abbigliate con questi parrucconi rosso cinese, alla Amy Winehouse.»
In questo periodo, stai portando in giro anche Anna Cappelli di Annibale Ruccello, quanto della tua pazzia artistica hai messo in questo ruolo?
«Questo personaggio l’ho accolto nel duemila, non ho mai voluto fare monologhi, ho messo del tempo per decidere, non sono come i giovani d’oggi, che la prima cosa che fanno è il monologo. È difficilissimo, perché sei da sola, con il testo, con l’autore e, da sola stai con il personaggio. Comunque, ogni giorno scopro una Anna Cappelli diversa, a seconda del mio umore della serata, il mio essere schizzata o meno. È un testo scritto meravigliosamente bene, il sapere entrare nelle pieghe di una donna, lui è arrivato al parossismo di far mangiare l’uomo che ama. Ruccello ha preso spunto da un famoso fatto di cronaca realmente accaduto, un giapponese che mangiò la sua donna per amore e, la prima cosa che mangiò furono le labbra, perché erano quelle che l’avevano insultato, una pratica di cannibalismo quasi religiosa. E fa riferimento, anche, al libro di Juro Kara uscito un Italia nel 1985, “L’adorazione – il giapponese cannibale per amore”.»
Un testo molto attuale, visto che ogni giorno si parla di omicidi o violenze per amore…
«La debolezza di questa donna è il disagio di non sapere dove si trova, a casa sua le tolgono la stanza, torna a casa e non si ritrova più, si sente un ospite, vive un disagio continuo, cerca di piantare i piedi a terra, ma non ce la fa. Questa cosa mi distrugge moltissimo la sera, anche se non vuoi entrare appieno nel ruolo, comunque il teatro è sempre finzione, però, il personaggio ti prende e mette all’ennesima potenza il tuo disagio di quel momento, una genialità di come è stato scritto.»
Quanto scopri di te attraverso determinati testi?
«Moltissimo, c’è molto di me sempre, mi piace esplorare mondi in cui io non ci sono, la cosa bella è entrare in persone diverse, altre da me, però c’è tantissimo di me dentro. Se sono cattiva, cerco di spingere tantissimo il pedale sulla mia cattiveria, che magari non esce mai, ma è bello farlo sul palco. Oppure queste perdizioni femminili sull’amore,oggi non sono così, lo ero quando ero ragazza, adesso ho 57 anni. C’è varia umanità nei personaggi che incontro, è un gioco meraviglioso, esplorare un mondo che non sei tu, o che ti sta vicino, o che potresti essere, però costa molto.»
Hai mai scritto qualcosa per il teatro?
«Mai, non lo so se sono capace, così come ho fatto una sola volta una regia, sono molto rispettosa su queste cose, non si può fare tutto, sempre. Oddio, magari in futuro posso pure trovare qualche idea, però sono molto per l’esecuzione, che partorire idee.»
Quante rinunce hai dovuto affrontare per il teatro?
«Ho rinunciato alla mia vita, non ho un figlio, non ho un compagno, non perché il teatro me lo abbia impedito, però il figlio è della madre, di chi se lo cresce, non lo puoi lasciare sempre nelle mani delle baby-sitter, questa è una cosa che mi ha penalizzato tantissimo, perché ho un istinto materno, o fai la tua professione o fai la mamma. La stessa cosa per un compagno, se lui fa il tuo stesso mestiere è un dramma, se lavori molto, è invidioso di te, se lui lavorasse tanto, viceversa, c’è sempre un conflitto. Dovrei cercare in altri luoghi, ma non ho il tempo. Sono una persona sola, in fondo, sola con i miei personaggi, ho gli amici, ma sono pochi quelli a cui veramente puoi confidarti, il resto sono tutti conoscenti, persone che passano sulla mia strada di tanto in tanto.»
Prima de La Gatta Cenerentola nel ’76, avevi già avuto altre esperienze teatrali?
«Avevo 17 anni e cantavo con la chitarra, e mi divertivo con la mia amica facendo canzoni della Nuova Compagnia di Canto Popolare e, poiché tanti anni fa un mio amico attore lavorava con il regista Lucio Beffi di Torre del Greco, lui mi vide cantare e, disse al mio amico che mi voleva in un suo spettacolo, io non ci volevo andare, non volevo fare questo mestiere, ma lui insistette. Per me era destinato altro, volevo fare l’insegnante, volevo addirittura fare l’analista. Ma nelle nostre vene scorre sangue Carosone, mio zio era Renato Carosone, mia nonna era un’attrice famosa, l’altra mia nonna era una cantante, insomma, in famiglia, nel dna, questo ci stava. E non volendo, io sono stata vista, in questo spettacolo, da Concetta e Peppe Barra, che mi hanno segnalato a De Simone, da allora è cominciato il mio excursus, che non è ancora terminato, sono quasi quarant’anni. Quindi, il mio primo spettacolo è stato con Lucio Beffi e, si chiamava “Tupeapo” con grandi nomi, Franco Acampora, Maria Di Maio, Gennarino Palumbo, e io avevo un ruolo folle, sui generis, mezzo cantato e mezzo recitato. Interpretazione che piacque molto, quando si dice è nata una nuova stella e il maestro De Simone mi chiamò subito, quindi io ha fatto prima questo spettacolo e poi subito La Gatta Cenerentola.»
Al cinema ti sei mai avvicinata, facendo provini…
«Ho fatto diversi film, anche due con Vincenzo Salemme, con il quale ho lavorato anche a teatro. Ma il primo film che ho fatto è stato Il Camorrista di Tornatore. L’ultimo, di prossima uscita, è I Milionari di Alessandro Piva, tratto dal libro best seller del magistrato Luigi Alberto Cannavale e del giornalista Giacomo Gensini.
Un film, ahimè, ancora sulla camorra, e parla dell´ascesa e del declino dei Di Lauro, di Ciruzzo ‘o milionario (il capo della banda). Io interpreto la mamma de ‘o Piragna, uno che deve essere ucciso. La prima scena mi vede con lui in questo appartamento e, gli bruciano la casa, per far sì che lui esca fuori, e venga sparato, invece, lui ha un’idea felice, si butta sotto la doccia con la madre, per cui, mentre fuori ci sono le fiamme, loro si salvano. In una seconda scena per punirlo, uccideranno la madre in questa pescheria, e lui impazzisce, è una storia realmente accaduta, ho due pose molto forti.»