L’ultimo romanzo di Antonella Lattanzi ha per titolo Le cose che non si raccontano (Ed. Einaudi, pag.216).
Il desiderio di maternità è uno di quelli che va soddisfatto e quando non si realizza diventa un groppo allo gola che ti fa e ti farà soffrire per sempre.
La scrittrice poteva non raccontare il suo strazio insieme alla delusione, ai ricoveri, alla fecondazione assistita ma avrebbe omesso una parte di sé e tradita la fiducia dei suoi lettori. E così ha messo nero su bianco ciò che aveva in mente da diverso tempo e ne è uscito un libro autobiografico che può aiutare le altre donne.
Noi di Mydreams abbiamo partecipato ad un incontro con Antonella Lattanzi via streaming organizzato da Connessioni per le Librerie UBIK.
Quando ha deciso che la sua vicenda personale poteva essere condivisa con i suoi lettori dato che i suoi precedenti libri non sono stati mai così dichiaratamente autobiografici?
«Avrei potuto dire che non era la mia storia. Ci ho riflettuto a lungo e non l’ho fatto per due ragioni: dovevo prendermi delle responsabilità verso tutti coloro che mi seguono e quello che mi è successo è stato così assurdo che se avessi sostenuto che si trattava di pura finzione i lettori non mi avrebbero creduta. Inoltre ogni mio scritto ha la stessa genesi: ho un’idea che mi occupa letteralmente il cervello e dovevo scrivere. Ero uscita dall’ennesimo ospedale ed ero disperata. Mi trovavo sulla spiaggia di Sabaudia, presso il complesso balneare I Gemelli (altro nome che evoca la maternità) e odiavo quel mare, pur essendo di Bari, nel quale nuotavano donne incinte o mi sembravano tali. Il mio compagno era sdraiato accanto a me e leggeva e all’improvviso il cielo è diventato grigio e io mi sono sentita come quel cielo e quel mare che avevano quel colore triste e intenso. Tutto quello che avevo vissuto lo avevo nella mia testa e la scrittura mi avrebbe consentito di avere uno schermo come se quelle cose non fossero accadute a me. Non avevo altro nella mia testa, soltanto l’urgenza di scrivere Nessuno racconta queste cose, nessuno ha mai raccontato queste cose anche se in teoria difendiamo il diritto all’aborto. E ho anche avuto il timore di non terminare il libro. Ho riletto cartelle cliniche, messaggi, risultati delle analisi con la speranza che il tutto sarebbe stato meno penoso. Ma mi sono resa conto che il dolore è rimasto intatto ed anche la rabbia».
Conciliare il lavoro e la maternità è un problema che le donne si pongono da sempre. Come ha affrontato questa incertezza?
«Ho deciso di abortire quando ero più giovane perché mi rendevo conto che un figlio mi avrebbe per sempre cambiato la vita ed io volevo realizzare i miei desideri. Come ho detto prima io credo nel diritto all’aborto ma mi sono sentita poi una persona egoista per aver rimandato la maternità. Non rimarrai incinta perché non lo meriti, questo mi sentivo dire e dicevo a me stessa. Sai che diventi un involucro per gli altri e per il bambino che aspetti e che dovresti invece essere un angelo. Ripenso a Madame Bovary che in un primo momento non vuole un figlio ma costretta da suo marito Charles spera poi che sia un maschio perché sarebbe libero mentre la donna non lo è e non lo sarà mai. Lavoro e maternità non dovrebbero essere in conflitto tra loro. Anche negli ospedali che ho frequentato mi proponevano questo aut aut: o il lavoro o la maternità».
Durante la stesura del libro che, immaginiamo le abbia causato molta sofferenza, chi l’ha supportata?
«La mia amica Giulia, madre di due bambini. E’ stata l’unica persona alla quale raccontavo le cose mentre mi succedevano e non è mai mancato il suo supporto anche nei momenti più bui e mi riferisco a quelli della riduzione fetale ,il processo di riduzione del numero degli embrioni fecondati da tre a uno, nel mio caso. Durante tutto il percorso una donna è sola e neppure il tuo compagno è in qualche modo preparato. Il calvario viene vissuto dalle donne. Il tuo corpo diventa oggetto medico. La paternità e la maternità dovrebbero iniziare dal momento del concepimento ed interessare la coppia. É normale che una donna convive con la paura, anche quella del parto. Bisognerebbe assistere entrambi i futuri genitori e sono convinta che anche le crisi post partum potrebbero essere arginate».
Come ha fatto a “maneggiare” letterariamente tutto questo materiale incandescente?
«Avevo paura di scrivere un diario o un memoir. Ho scritto per eliminazione. Es. non ci sono pagine dedicate alla mia famiglia d’origine mentre vivo quest’incubo. Ho scritto controllandomi, senza sfociare nel vittimismo, in modo onesto soprattutto con me stessa e poi con i miei lettori. So che il mio libro può e potrà aiutare molte donne».
La scrittura per lei è stata terapeutica?
«Certo. In ospedale mi ero portata tanti libri da leggere ma non ne ho letto nessuno. Guardavo soprattutto la TV, film e serie televisive. Non cedevo alla disperazione o al pianto perché forse non avrei più smesso. Avevo un’immagine ricorrente: una mano aggrappata ad una roccia. Oggi sono sommersa da messaggi di stima e di affetto dei miei lettori. Non ho mai risposto alle violenze subite con la violenza , neppure quella verbale. Il libro lo ha fatto e lo fa per me. Spero tanto che non accadano più queste cose. So di aver trasformato la rabbia in letteratura».