Pubblicato dall’etichetta indipendente Clessidrea Records e anticipato dall’uscita di due singoli Moon at the windows e The Hissing of summer lawns, è in distribuzione “Amelia”, il nuovo disco della cantante Martha J. e del pianista Francesco Chebat, dedicato alla cantautrice Joni Mitchell, ha avuto la collaborazione del contrabbassista Giulio Corini, e del batterista Maxx Furian. L’album è disponibile sulle principali piattaforme in streaming da venerdì 16 febbraio 2024 e acquistabile anche in copia fisica. Di questa nuova produzione ne abbiamo parlato con i protagonisti.
È uscito l’album “Amelia” dedicato all’artista Joni Mitchell per il suo ottantesimo compleanno. Qual è l’anello di congiunzione tra lei e la cantautrice nordamericana?
La musica di Joni Mitchell è entrata a far parte della mia vita quando ero adolescente, avrò avuto credo quindici anni. Il suo modo di cantare, le sue melodie, il fatto che i suoi primi dischi erano quasi esclusivamente voce e chitarra (e anche io suonavo la chitarra), i suoi testi… tutto questo ha risuonato immediatamente con la mia voce e la mia voglia di esprimermi attraverso la musica, che si stavano sviluppando in quegli anni.
A quell’epoca non c’era internet, quindi era difficile trovare spartiti già pronti e testi: ho passato pomeriggi interi chiusa in camera a trascrivere i testi delle sue canzoni, a scoprire quale accordatura aperta aveva usato nei vari brani, a imparare le sue canzoni… questo ascolto molto approfondito, in un momento in cui ero come una spugna che assorbiva ogni esperienza musicale, credo che abbia fortemente influenzato il mio modo di intendere la musica. Una curiosità: il primo provino su cassetta che ho registrato conteneva cinque canzoni, di cui due erano di Joni Mitchell: Little Green e The Circle Game (gli altri pezzi erano di Jorma Kaukonen, the Beatles e Carole King).
Cosa rappresenta per lei Joni Mitchell?
Oltre a ciò di cui ho parlato prima, per me le canzoni di Joni Mitchell hanno rappresentato l’accesso a un tipo di musica più complesso, meno“orecchiabile” rispetto a quello che ero abituata ad ascoltare (i Beatles, James Taylor, Bob Dylan, Carole King…).
L’ascolto degli album di Joni Mitchell mi ha portato a scoprire melodie, armonizzazioni e ambienti sonori che mi aprivano nuovi orizzonti musicali e possibilità espressive che in qualche modo “risuonavano” con la mia personalità e il mio carattere. Dopo aver passato molto tempo con i suoi primi lavori acustici, gli album “Hejira” e “Mingus” sono stati la porta d’ingresso nel mondo di un sound più contaminato. Non ho più trovato nessun artista che mi abbia così profondamente influenzato, in ogni aspetto della musica e non solo in quello semplicemente vocale. Forse ultimamente il lavoro di Sara Serpa sta rappresentando per me un punto di riferimento ugualmente profondo.
Credo che la musica jazz sia un modo di comunicare intenso, che parte dall’istinto, quindi, dal profondo dell’animo. Come nascono le sue composizioni e cosa l’ha indotta ad avvicinarsi a questo genere musicale?
Quando Lei dice “Credo che la musica jazz sia un modo di comunicare intenso, che parte dall’istinto, quindi, dal profondo dell’animo”, mi trova d’accordo e riconosco in questa frase gli elementi che hanno guidato il mio percorso musicale, in cui la ricerca di profondità e l’istinto sono molto presenti. Infatti, sono una cantante e musicista quasi totalmente autodidatta. Non solo perché nella mia famiglia la musica non era contemplata come percorso educativo, ma anche (e soprattutto) perché sono sempre stata “anarchica” nello studio, negli ascolti, nella ricerca. Questo aspetto del mio carattere è ancora molto presente: sono profondamente allergica a ogni tipo di costrizione, di moda, di vincolo che mi porta lontano da quello che sento di voler esprimere. Quindi, come lei ha ben espresso nella domanda, il jazz è il genere musicale che più rispecchia la mia personalità.
A fare da contrappunto al mio istinto e al mio “cuore”, in questi anni c’è sempre stato il pianista e compositore Francesco Chebat, che ha saputo comprendere il mio universo musicale e tradurlo nell’ambiente sonoro più adatto ed emozionante per accogliere la mia voce e i miei testi.
Dal rock della Mitchell alla sua natura jazz, si possono creare contaminazioni di grande livello sonoro e poetico. Delle undici canzoni della cantautrice Joni Mitchell inserite nell’album, arrangiate da Francesco Chebat, e rivisitate in chiave jazz, quale forma ispirativa ha determinato la loro rielaborazione?
Il processo di selezione è stato un importante punto di partenza: ho fatto una prima selezioni di una trentina di canzoni scelte fra quelle che più mi emozionavano e quelle meno “coverizzate”. Il mio obiettivo era far conoscere anche qualche piccola perla dimenticata, ma affascinante tanto quanto i suoi brani più famosi. Ho trascritto tutti i brani per avere un punto di vista “neutro” e poi Francesco e io ci siamo seduti al pianoforte e li abbiamo suonati e cantati più volte, per interiorizzare melodia e armonia. Per gli arrangiamenti, Francesco Chebat è partito da alcuni elementi che fanno ormai parte del nostro lessico: l’attenzione al groove e al suo rapporto con atmosfere più rarefatte, lo spazio per l’improvvisazione, qualche tempo dispari, il rispetto del materiale originale seppure inserito nella nostra visione, il focus su un sound contemporaneo…
L’aspetto “rock” di Joni Mitchell è stato un elemento che abbiamo tenuto ben presente perché era proprio quest’anima più “sanguigna” e meno eterea della Mitchell che ci interessava esplorare, quella delle sue collaborazione con Jaco Pastorius, Herbie Hancock, Peter Erskine, Wayne Shorter… musicisti che hanno spostato il baricentro della sua musica dal folk a livelli di complessità più vicini al jazz e alle sue contaminazioni, un aspetto della Mitchell che spesso viene trascurato.
La scelta di lavorare con musicisti come Maxx Furian e Giulio Corini ha sicuramente aiutato a percorrere questa strada: grazie a queste una sezione ritmica molto solida e molto “jazz contemporaneo” credo che siamo riusciti a dare una visione attuale della musica di Joni Mitchell e della sua anima “jazz-rock”, evidenziando non solo il valore della sua voce, ma anche le sue qualità di compositrice e musicista.
Come mai l’album si chiama Amelia? Quale significato si cela dietro questo nome di donna? Cosa rappresenta per voi?
Abbiamo dibattuto molto su quale doveva essere il titolo dell’album. Alla fine è stata una decisione di pancia (o di cuore?) perché Amelia era il nome di mia nonna: una donna che (come Amelia Erhart, l’aviatrice a cui è dedicata la canzone) è stata molto forte e si è mossa al di fuori delle convenzioni, facendo scelte di vita coraggiose per l’epoca, specialmente per una donna.
Ci sono delle serate live in programma per la promozione del lavoro discografico?
Certamente ci saranno dei concerti. Ci teniamo molto a portare questo progetto dal vivo e speriamo di poterlo fare al più presto. Per ora, non c’è niente di definito, ma se ci seguite sui social potete rimanere informati su tutte le nostre attività.