Alexis Sweet è uno dei più apprezzati registi italiani, passa dagli spot pubblicitari e documentari alla regia di fiction, grazie all’incontro con Valsecchi. È stato aiuto regista di Neil Jordan, ha lavorato con Steven Spielberg, Ridley Scott, Spike Lee, Mike Figgis, per citarne alcuni.
Sweet ha portato al successo fiction italiane come R.I.S. – Delitti imperfetti, Il Capo dei Capi, Il tredicesimo apostolo, Il clan dei camorristi, e attualmente è impegnato a girare il primo episodio di una nuova fiction, Squadra mobile.
Abbiamo incontrato Alexis Sweet all’apertura della IV edizione del Social World Film Festival, il festival internazionale del cinema sociale di Vico Equense.
Vorrei subito chiederle una curiosità, la cosa più estrema che ha chiesto ai suoi attori…
«Una scena di sesso tra Giuseppe Zeno e la Claudia Potenza durante le riprese de Il Clan dei Camorristi, la cosa divertente che io sapevo, in regia c’era anche Angelini che aveva girato la scena di sesso tra Accorsi e la Francesca Beggio e che facevano l’amore in una certa maniera. Io volevo il contrario. Mi sono ispirato a un film che avevo visto anni fa di Fassbinder, Il fabbricante di gattini e ho chiesto a Giuseppe e a Claudia di voler fare una scena abbastanza piccante, tutti sudati, ma con classe. E sai chi aveva problemi? Giuseppe. Alla fine era così piccante, che lui aveva dei problemi e lei si è data, le donne quando decidono lo fanno, gli uomini dicono sì e poi si creano problemi.»
Lei vive a Roma da quanti anni?
D«a vent’anni. Agli inizi, quando vivevo a Roma, mi conveniva stare al Grand Hotel, perché a Roma rimanevo un mese all’anno, pagavo l’affitto, ma stavo sempre fuori, giravo in Russia, Romania, Sud Africa, Svezia, etc. Lavoravo nella pubblicità, prima di conoscere Pietro Valsecchi.»
E così ha iniziato con le fiction…
«Sì, il mio esordio è stato con R.I.S. – Delitti imperfetti, grazie allo sceneggiatore Stefano Bises, che ora ha fatto Gomorra, con me Il Capo dei capi e mi ha dato la possibilità di conoscere Pietro, che cercava un regista per questo nuovo formato. Stefano ne parlò a Valsecchi, gli fece vedere un mio showreel e gli è piacque. Non immaginavo che lui mi desse tutta questa responsabilità, senza conoscere chi ero, non aveva visto niente di mio, a parte degli spot. Pietro è così, lavora tutto di pancia e sulla simpatia. Mi ricordo che Bises mi disse come dirgli le cose, le parole che piacevano sentirsi dire, quindi appena incontrai Pietro, dissi, ma come deve essere uno per fare R.I.S., e mi rispose, deve essere con il timecode, con un chiodo qui, è come dico io, gli ho detto a Pietro, e quindi l’ho conquistato con un po’ d’aiuto da parte di Stefano.»
Questo perché era arrivato il momento di fare altro, oltre alle pubblicità?
«Le mie pubblicità non erano mai visuali, erano molto più storie, tipo commedie sentimentali, c’era una storia in una pubblicità, con delle emozioni che amavano me, però non ero mai un pubblicitario visionario, ma più che altro di introspezione.»
E poi hai avuto la fortuna di conoscere Valsecchi…
«Assolutamente, io non ci credevo, all’inizio mi ha chiesto di fare R.I.S., e accettai, una volta tanto che un produttore italiano mi aveva chiesto di fare una cosa, e anche importante, e parto per l’Africa, e vado in Benin, Niger, BurKina Faso e Togo per girare un documentario. Mi arriva un fax, un telex, con scritto sopra: Dove c*** stai? Iniziamo le riprese fra un mese. Ho dovuto abbandonare il documentario e son tornato per girare il primo R.I.S., non sapevo niente di televisione, mi son guardato quello che era di moda in America, la serie 24, mi sono piaciute delle inquadrature a quadri, poi ho aggiunto un po’ di macchine a mano. Dopo il montaggio passò un anno che non andò in onda, perché la Rete aveva paura, diceva che era troppo freddo, troppo diverso, loro volevano una fiction tipo Distretto di Polizia con la scienza, con dialoghi popolari, io, invece, avevo fatto tutt’altro, dicendomi che era freddo, perché secondo me il bello di R.I.S. non era il sentimentalismo, il buonismo, era la prova, tipo un biscotto mangiato a metà dove c’è presente il dna, era questa la vera chiave, il crimine visto attraverso il dettaglio. Poi l’hanno messo in onda e fece otto milioni di spettatori.»
Quindi partecipi a volte anche alla sceneggiatura?
«Sì, molto.»
Adesso cosa stai facendo?
«Squadra mobile, una nuova serie con Giorgio Tirabassi, Daniele Liotti, Antonio Catania, Valeria Bilello, Serena Rossi, Riccardo Rossi, girato a Cinecittà, bellissimo teatro, bellissima costruzione, e, parla dell’umanità dei poliziotti, non è più il giallo, ma è la loro vita, cosa vuol dire essere un poliziotto, quindi non è più chi è stato o chi non è stato, è ma io che problemi ho, nella vita, uno è alcolista, all’altro gli manca il figlio, è un menù di alto livello.»
La stagione di quanti episodi?
«Io ne faccio uno.»