Il 9 settembre esce “ALEX”, il nuovo album di inediti di Raige anticipato dai singoli “Domani” e “Il rumore che fa” feat. Marco Masini. Il duetto è molto particolare, perché su una ballad dal sapore pop si sentono due voci che apparantemente provengono da due mondi opposti. «Eppure con mio padre lo ascoltavo spesso – ci dice il cantautore piemontese alla presentazione dell’album – e per me oggi è una fortuna aver guadagnato la stima artistica di chi ha fatto tanto per la musica italiana». Con questo nuovo lavoro che prende il titolo dal suo vero nome, Raige sceglie di togliersi di dosso la paura di non essere all’altezza delle aspettative, sceglie di mostrarsi per quello che è davvero, senza regole, schemi o canoni. “Alex” sarà ricordato come una svolta artistica in cui Raige si trova a scrivere con autori come Davide Simonetta e pochi altri per un progetto discografico più intimo e più libero. La produzione è di Cristian Milani e Antonio Filippelli.
Raige, spiegaci le ragioni del titolo per Alex.
«L’album molto intimo e personale si meritava un nome col mio nome, perché mi sento di essere me stesso. Quale miglior titolo»?
La differenza col linguaggio che adottavi prima?
«Il tempo ha fruttato una penna diversa. All’inizio facevo piùà strettamente rap. Col tempo per esempio mi sono accorto che il genio è chi ti scrive quattro parole e ti fa arrivare il concetto che può essere capito da tutti, senza diversificazioni culturali. Dare in pasto se stesso, con una musica molto personale è importante e deve essere semplice»
Hai toccato un punto che secondo me è la chiave: l’artista mette molto di se stesso nei suoi lavori. Come si supera l’emotività quando poi si divulga la propria opera?
«Non ci sono altre possibilità, quello che vivo lo metto in piazza, vivo quello che scrivo. Anzi, scrivere mi aiuta a vivere. Ho la presunzione di dirti che chi ascolta me ha fatto una scelta già all’inizio, siamo un gruppo forte, unito che è cresciuto assieme. Questo disco è per forma e contenuto più accessibile. Ma poi quello che diranno gli altri non lo so. Voglio essere l’alternativa».
A cosa?
«Al nulla. Non ho un buon giudizio per quello che si sente. A parte qualcosa, i soliti grossi autori o interpreti, sono poche le realtà che mi convincono. Oggi mi genera rispetto Calcutta. Perchè è pop e fa finta di essere indie. Troppo figo, perché a me piace la melodia. Pop per me non è insulto, è popular. I rapper che fanno finta di essere nicchia non mi piacciono. In questo momento in Italia non c’è niente di più pop del rap».
Questo abbraccio che fai al pop ha creato qualche novità nel modo in cui ti presenti al pubblico?
«Per una questione di onestà intellettuale nelle categorie di iTunes ho voluto che il mio nome fosse sotto l’etichetta pop. Perchè questo disco è scritto come andava scritto secondo me, ci sono parti rap, cantate».
Infatti esce bene la tua personalità vocale che non sempre si è sentita.
«Molto lo devo ai miei produttori perché hanno una visione della musica più ampia e mi hanno insegnato ad approcciarmi diversamente a quello che scrivo, a non avere paura di osare. Nell’esecuzione mi hanno aiutato, ovviamente, perché non ho mai studiato canto. Quello che faccio è per volere divino».
Analizziamo i testi. Dove Finisce Il Cielo, qui parli di senso di inadeguatezza…
«Importante perché é dedicato a mia madre che è scomparsa da poco. Volevo scrivere una canzone per lei ma con dignità, quindi senza il classico “mi manchi”, volevo che fosse per tutti, penso di esserci riuscito perché le visualizzazioni sono molto indicative. Il brano è arrivato. Secondo me ci vuole compromesso giusto tra la modestia di capire quello che ti dicono e il coraggio di portarli dove vuoi tu. Nella vita paga chi si prende le responsabilità e poi ci sono delle cose che trasmettono emozioni o meno, il sesto senso o il fiuto della gente stabilisce la fortuna di una canzone. Internet è la patria di un pubblico davvero giovane, non sono il mio target, sono ragazzi delle scuole medie. Ai concerti arrivano persone molto esigenti, vogliono sostanza e io cerco di dargliela. Il mio sogno è di poter fare una musica che va oltre i teen-ager, perché loro non hanno vissuto abbastanza per essere entrati in contatto con quello che dico».
Hai usato Capolavoro e Perfetto come titoli. Arroganza?
«Il mondo è un capolavoro, come fa a esserlo una canzone? È un tranello, un brano può esserlo ma senza chiamarlo tale. Io scrivo quello che mi viene, sono una persona che non fa finta di essere invicibile e quindi ci sono anche dei quesiti nei miei testi. Non ho mai fatto discorsi commerciali, credo che il gioco al massacro o chi è più figo funziona con un certo tipo di pubblico ma solo nel momento in cui il tuo personaggio si è mangiato la tua arte. Ma a quel punto la tua arte sarebbe piccola. Io voglio pensare di essere come i vecchi cantautori, che prima di arrivare a tutti ci mettevano 3 o 4 dischi».
Come ti vedi nel mondo della musica?
«Non me ne frega molto di apparire. Faccio il lavoro che voglio, la cosa più figa del mondo, riesco a farlo ogni giorno, mi batto per questo. E non devo dimostrare, non ho questa ossessione. Penso ai tanti artisti dei talent che dopo due album spariscono o hanno difficoltà, è tragico. Perché non si può ragionare con la velocità, a me spesso servono anni per capire un disco, mi è capitato anche con i Green Day per esempio».
Il disco è vario ma ha un sound omogeneo. È intenzionale?
«Non volevo riempitivi ma volevo che si sentisse che fosse un disco uscito e pensato come tale. Non l’ho scritto tutto in un arco di tempo ma questo non vuol dire che ho fatto ripescaggi in cose scartate in passato. La priorità era che fosse un album senza riempitivi, perché già non c’è tempo per ascoltare gli album, figuriamoci se fai pezzi fotocopia. “Non c’è niente da ridere” per esempio, l’ho scritta due giorni prima di chiudere il disco. Ho tolto qualche altra cosa, perché è il mio brano preferito del disco e meritava un posto».