Al Teatro Mercadante di Napoli, Elisabetta Pozzi e Laura Marinoni in Maria Stuarda di Friedrich Schiller, nella versione di Carlo Sciaccaluga, con Gaia Aprea, Linda Gennari, Giancarlo Judica Cordiglia, Olivia Manescalchi, Sax Nicosia e con Giua alla chitarra elettrica, per la regia di Davide Livermore; una co-produzione Teatro Nazionale di Torino, Teatro Nazionale di Genova e Centro Teatrale Bresciano (repliche fino a dom. 10 dicembre).
In Maria Stuarda, scritta alla fine del Settecento e andata in scena per la prima volta a Weimar nel 1800, Schiller racconta gli ultimi giorni di vita della sovrana cattolica scozzese, imprigionata nella Torre di Londra dalla cugina Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, col pretesto di aver fatto uccidere il suo proprio marito e condannata a morte per decapitazione per aver tramato contro la cugina per impossessarsi anche del trono inglese. Intorno a questo plot principale ruotano una serie di personaggi ambigui, doppiogiochisti, traditori e servi fedeli ingiustamente accusati di infedeltà, in quell’eterno gioco – spesso mortale – che è quello del Potere. Rispetto alle tragedie shakespeariane e marlowiane che trattano temi analoghi, qui abbiamo un ingrediente che fa non poca differenza: la declinazione al femminile del Potere che, parimenti a quella maschile, induce alla solitudine, alla diffidenza, in sostanza, alla infelicità, con un elemento in più: alla donna è richiesta forza, giustizia, temperanza per regnare (come all’uomo) ma anche di diventare madre, per assicurare un erede al trono. Tanto che, alla fine, vien da domandarsi se non abbia destino migliore la Stuarda che, con la morte, si libera finalmente da ogni laccio che la tiene legata alla volontà di un popolo volubile e di una corte infida.
«È interessante questo affondo di Schiller nel mondo femminile – dichiara Elisabetta Pozzi – perché questa sua lettura così attenta e sensibile, apre squarci interpretativi forti, che mostrano una chiara valenza politica».
«Quelle di Schiller – sostiene Livermore – sono storie all’interno delle quali si trova davvero tutto. Con molteplici livelli di comprensione, a partire proprio dall’intreccio, che si dipana con colpi di scena capaci di ispirare gli autori dei feuilleton ottocenteschi o gli sceneggiatori delle serie Netflix. Ogni scena porta con sé un “colpo di teatro”, un avanzamento improvviso, un cambio di inquadratura emotiva di ogni personaggio».
Fin dall’alzata del sipario, si avverte la sensazione di trovarsi dinanzi ad uno spettacolo “importante”, come se ne vedono pochi al giorno d’oggi. Lo sforzo produttivo si evince dalla sontuosità dei costumi di Anna Missaglia e di Dolce & Gabbana che vestono le due prime donne, dall’impianto scenografico composito di Lorenzo Russo Rainaldi, così come dalla scelta di un cast nutrito di eccellenze. Come ai tempi di Elisabetta I il Teatro era agito solo da uomini che ricoprivano anche i ruoli femminili, così qui le donne ricoprono spesso anche ruoli maschili, con ottimi risultati, in termini di credibilità.
Livermore opta per un’ambientazione storica e post-moderna allo stesso tempo, a sottolineare l’universalità di questo bel dramma ricco di suspense e colpi di scena. Dramma in cui Schiller raggiunge le vette del Bardo inglese, sapientemente tradotto da Sciaccaluga in un italiano fluido e comprensibile. E ciò che segna un altro punto a favore di questo spettacolo è proprio la facile comprensibilità, nonostante i circa venti personaggi messi in scena (a parte le protagoniste, ogni attore o attrice è chiamato a vestire i panni di tre personaggi) e la durata di quasi tre ore più intervallo.
La Pozzi e la Marinoni sono chiamate ad interpretare la Stuarda e la Tudor secondo il caso: nel prologo dello spettacolo, un angelo (della morte?) stacca una piuma dalle sue ali. A seconda della direzione che prenderà questa piuma, si stabilisce chi interpreterà chi. Per questo varrebbe la pena di vedere lo spettacolo almeno due volte. In ogni caso esse giganteggiano sulla scena, interpretando due femminilità così diverse eppure così complementari. In effetti, questo escamotage ci permette di riflettere sulla sorte che unisce vittima e carnefice e ci fa porre la domanda se – a ruoli invertiti – la Stuarda avrebbe avuto più pietà della sua rivale di quanto non ne sia concessa a lei. Il resto del cast, come abbiamo detto, non sfigura dinanzi alla bravura delle protagoniste, grazie anche ad un’equa ripartizione dei ruoli che concede a tutti scene o monologhi di rilievo. Cast che si completa con la presenza costante sulla scena di Giua che ripercorre con la sua chitarra elettrica e la sua voce le musiche stile Cinquecento del M° Mario Conte, offrendo all’azione un tappeto sonoro continuo e che, insieme agli altri, riserva una piccola ma gradita sorpresa finale.