In scena, al Teatro Mercadante di Napoli, Zio Vanja di Anton Cechov, con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna, per la regia di Leonardo Lidi; una produzione del Teatro Stabile dell’Umbria in coproduzione con il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e con Spoleto Festival dei Due Mondi (repliche fino a domenica 28 aprile).
Scritto nel 1896, Zio Vanja è una delle opere maggiori di Cechov. In essa si avverte tutto lo spaesamento che provoca la fine di un’epoca e l’incognita che rappresenta l’inizio di un nuovo secolo. Questo senso di vertigine è provato da Vanja che, alla vigilia dei cinquant’anni, si rende conto di aver sacrificato il suo tempo e le sue migliori qualità a favore del cognato, marito dell’amata sorella defunta, Serebriakov, professore che – da quando è andato in pensione – non se lo ricorda più nessuno. Invano Vanja cerca di far aprire gli occhi alla famiglia e ai villici che gli stanno intorno sulla inconsistenza del personaggio in questione e delle sue tesi scientifiche. Essi, infatti, sono ciechi e chiusi in un immobilismo che ben rappresenta la loro classe sociale: quella piccola aristocrazia terriera che di lì a vent’anni sarebbe stata spazzata via dalla Storia. Si potrebbe dirlo il dramma della fine delle illusioni. E adesso che queste si sono rivelate per quel che sono, Vanja si pone il più tremendo degli interrogativi: come passare il tempo, in cosa credere per i prossimi vent’anni, fino alla morte? “C’è stato un tempo – riflette Lidi – dove questa strana famiglia non era poi così strana. I ruoli erano ben distribuiti e ogni personaggio poteva considerarsi utile allo spettacolo del quotidiano. Chi indossava il costume dell’intellettuale, ad esempio, era da considerarsi metafora di speranza futura ed era opportuno riservare ad esso amore e gratitudine. Era lecito che una bella e gentile ragazza si invaghisse del proprio professore ed era altrettanto plausibile che la famiglia della giovine tutelasse il sapiente uomo come un animale in via d’estinzione. E così Vera si sposa con Aleksandr, lo porta a Casa e la storia comincia. Tutti remano nella medesima direzione e la possibilità di una Russia efficace e vincente smette di essere un miraggio e si tramuta in un concreto e reale domani. Ma Vera muore e tutto cambia. La speranza si spegne e chi prova a ricominciare suona ridicolo nel suo tentare. Il cuore si tinge di nero e questa possibile colorata commedia diventa una dissacrante e continuata risata isterica ad un funerale. L’idea di un paese guidato dai suoi pensatori è definitivamente sepolta e questa casa diviene culturalmente morta, governata da ignoranti e da sterili ideologie. Ce lo ricorda lo Zio, quel buffone vestito male che aspetta le riunioni di famiglia per alzare il gomito e sbatterci in faccia la nostra condizione perennemente umiliante. Inutile lavorare, inutile impegnarsi, inutile studiare, dice lo zio. Meglio lamentarsi di chi ha distrutto il talento.”
Dopo l’acclamato Il Gabbiano, questo Zio Vanja rappresenta la seconda parte del Progetto Cechov che Leonardo Lidi terminerà con Il Giardino dei Ciliegi. Qui il regista si avvale di un ottimo cast di attori e attrici che rendono al meglio tutti i personaggi e i loro tic. Le giuste sottolineature dei momenti comici e surreali del testo rendono lo spettacolo leggero e fruibile anche da chi non ha dimestichezza con Cechov. D’altra parte, però, l’eccessiva confidenza col testo porta a qualche sbavatura, come battute corse o buttate via. Così le scene di Nicolas Bovey, consistenti solo in una parete di assi di legno (come un palcoscenico verticale) su cui si appoggia una lunga panca: se da un lato suggeriscono una separazione tra un dentro e un fuori, con le scene principali che si svolgono al di là di essa, dall’altro costringono gli attori a muoversi soltanto in verticale e orizzontale, di faccia o di profilo, togliendo profondità all’azione. Inappuntabili i colorati costumi anni Sessanta di Aurora Damanti. Il risultato è uno spettacolo solo in parte riuscito, come spesso accade quando si vuol rendere in modo stilizzato e astratto il Teatro realista di fine Ottocento.