In scena, al Teatro Nuovo di Napoli, Carlo Cecchi ne Il Lavoro Di Vivere di Hanoch Levin, con Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto, per la regia di Andrée Ruth Shammah, che ne ha curato anche la traduzione con Claudia Della Seta; una co-produzione Teatro Franco Parenti di Milano e Marche Teatro (repliche fino a dom. 29 Gennaio).
Nato nel 1943 a Tel Aviv da una famiglia di ebrei polacchi praticanti e prematuramente scomparso nel 1999, Hanoch Levin è uno dei maggiori commediografi israeliani. Sempre in polemica con le politiche espansionistiche del suo Paese, ha lasciato un corpus di cinquantacinque commedie satiriche, più drammi mitologici, poemetti e radiodrammi. E’ uno degli autori più rappresentati sui palcoscenici europei e americani, anche se pressoché sconosciuto a quelli italiani, impegnati come sono a proporre le ultime novità di Shakespeare, Cechov e Pirandello, o riduzioni (in tutti i sensi) teatrali di vecchi film visti e stravisti. Il Lavoro Di Vivere è una delle sue commedie di maggior successo, in cui si indaga sulla distanza fra il sogno e la realtà, le ambizioni e la quotidianità di personaggi comuni, veri e propri antieroi. Una notte, un uomo si alza inquieto, s’interroga su chi gli dorma al fianco, fantastica su improbabili fughe con altre donne, poi infierisce sulla moglie, vomita rancori repressi, la butta a terra. Dal nulla spunta un visitatore, un amico che vuole un’aspirina (forse vuole solo parlare) ma è investito dal rancore dei due. Se ne va, non prima di aver dimostrato che è la paura della solitudine ad averli inchiodati per trent’anni l’uno all’altra, abbandonandoli alla loro amarezza, in una stanza da letto che è quasi un ring. “Levin – afferma Andrée Ruth Shammah – è uno che è sempre andato contro il trionfalismo israeliano, che obbliga a mettersi in gioco con una matrice ebraica universale, portando tragedia e commedia a sfiorarsi con la tipica ironia della disperazione”.
Lo spettacolo che la Shammah mette in piedi è altamente godibile, dal ritmo serrato e di un’ ironia tipicamente ebraica mista al sarcasmo tipico dell’autore, che lo rende vero Teatro della Crudeltà di artaudiana memoria. In esso il pubblico ride di gusto e in modo intelligente, essendo tuttavia obbligato a fare i conti con la sfera più intima di sé. L’interpretazione fresca e potente di Carlo Cecchi è degna di uno degli ultimi Grandi della scena italiana. L’allestimento scenico di Gianmaurizio Fercioni, i bei giochi di luci di Gigi Saccomandi e i costumi di Simona Dondoni, rendono lo spettacolo bello anche esteticamente.
Da vedere.