Torna a Napoli, al Teatro San Ferdinando, Moni Ovadia col suo Oylem Goylem, spettacolo di storie e musiche Yiddish, accompagnato in scena dai musicisti Michele Gazich (al violino), Giovanna Famulari (al violoncello), Massimo Marcer (alla tromba), Gian Pietro Marazza (alla fisarmonica), Marian Serban (al cymbalon); una produzione Corvino Produzioni e CTB Centro Teatrale Bresciano (repliche fino a dom. 12 novembre).
Era il lontano 1993 quando Moni Ovadia, tra i maggiori intellettuali ebrei europei, mise in scena per la prima volta Oylem Goylem, il suo spettacolo culto col quale fece conoscere, per la prima volta, al grande pubblico italiano la cultura Yiddish dell’Europa centro-orientale (corrispondente ai due grandi imperi germanico e russo), tramite la figura epica dell’Ebreo Errante. Vale a dire, gli Ebrei che – dopo Mosè – furono costretti alla diaspora, in giro prima per l’Europa e poi per le lontane Americhe. La cultura Yiddish si formò nell’ambito delle comunità di Ebrei organizzati in piccoli villaggi nell’Impero tedesco e nella Russia zarista, sulla base di una lingua – lo Yiddish, appunto – non scritta e perciò mutevole e ostile a qualsiasi codifica grammaticale, frutto di un miscuglio tra le parlate locali (molti dicono una sorta di tedesco ma con una venatura ironica sconosciuta alla lingua di Goethe). Questa lingua e cultura sarebbero state destinate a svanire quasi del tutto quando, dopo secoli di persecuzioni e (mal)tolleranza, la Shoà nazista eliminò fisicamente circa sei milioni di Ebrei europei. La condizione dell’Ebreo Errante è dunque quella dell’esiliato, dell’apolide, costretto – di volta in volta – a nutrirsi delle culture altrui per poter sopravvivere, in un continuo rapporto dialettico con la divinità che, se da un lato lo sottopone a continue prove, dall’altra fa sì che il suo ingegno si aguzzi nella nobile arte dell’arrangiarsi (ricordiamo che, a dispetto dei luoghi comuni, qui si trattava di comunità di una miseria assoluta).
«Ho sempre pensato – dice Moni Ovadia – che la condizione dell’esilio oltre ad avere connotazioni di carattere socio-giuridico-esistenziali, dovesse essere riconosciuta per caratteri “organolettici” e fra questi, di mio particolare interesse, il suono. Mi sento pulsionalmente attratto a frequentare le lingue del vagabondaggio reale e anche, attraverso ogni possibile pastiche linguistico, a sognare di costruire vagabondaggi immaginari. E personalmente sono quasi impossibilitato a “sentire” una coltura se non nel suo contesto linguistico-sonoro. La parola di ogni lingua contiene in sé una musicalità originaria portatrice di segni ineffabili perciò non discernibili che conducono ad una contabilità unica. Considerando il canto come prima istanza della musica, ritengo centrale in quella ebraica il krekhz, il lamento del cantore della sinagoga, una melopea vocalizzata su una sillaba o su una sola vocale, dal carattere insistito ed ossessivo».
Costruito con struttura da cabaret, con la classica alternanza tra racconti, storielle e curiosità divertenti e argute e brani musicali in lingua Yiddish, questo spettacolo va però ben oltre il puro divertimento o l’intenzione di far conoscere una cultura europea pressoché scomparsa. Il genio di Ovadia consiste nel rendere a noi vicini personaggi, ambientazioni e storie solo apparentemente distanti, facendo dell’esilio una condizione dello spirito che può riguardare qualsiasi essere umano, e dell’esiliato una figura tutt’altro che pietosa ma, al contrario, ricca di vitalità, speranza, ingegno. Secondo merito dello spettacolo è quello di far piazza pulita dei luoghi comuni sugli ebrei, partendo da quegli stessi luoghi comuni, ingigantendoli fino al parossismo, con una buona dose di intelligenza e autoironia, tanto da demolire l’altro luogo comune dell’Ebreo che si piange addosso, mostrandoci invece che l’Ebreo sa anche ridere della sua condizione di miseria e dei suoi difetti. Il terzo merito dello spettacolo, e forse il più meritorio, è quello di accostarsi con delicatezza alla difficile situazione mediorientale odierna con le parole stesse dello spettacolo, stabilendo un fil rouge che va dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, attraverso il quale ciascuno può trovare similitudini, moniti o allarmi affinché gli orrori del passato non si ripetano nei confronti di nessuno.