Ottima prova del coro del San Carlo diretto da José Luis Basso
José Luis Basso dirige il coro del teatro San Carlo su musiche di Brahms e Faurè
Concerto tutto corale (e con qualche strumento), quest’ultimo al San Carlo prima della pausa estiva, con musiche di Brahms e Fauré;
e occasione riuscita per dimostrare che anche la compagine vocale del teatro, oltre all’orchestra, ha ormai raggiunto un livello tecnico ed una musicalità molto soddisfacenti, grazie certo all’impegno e alla dedizione,
ma anche alle sapienti cure profuse dal suo direttore stabile, l’argentino José Luis Basso.
Parrebbe banale affermare che uno scrupoloso lavoro di preparazione e prove dia sempre buoni risultati, eppure qui l’osservazione è d’uopo,
e si pensa che il repertorio non era di quelli frequentemente eseguiti da una compagine nazionale, o nella fattispecie napoletana.
Non parliamo di DNA musicale, cosa in cui invero crediamo fino a un certo punto, né certo pensiamo che ogni coro dovrebbe cimentarsi solo con la propria musica nazionale, ci mancherebbe.
Qui in effetti non c’erano Bellini o Verdi, né Rossini o Donizetti , ma pagine del grande maestro del maturo romanticismo tedesco, nella prima parte,
e dell’altro grande francese che anticipò e forgiò tante avanguardie novecentesche, nella seconda:
autori classici di pagine assai note, questo è vero (il Requiem di Fauré è davvero un classico, sia eseguito in un contesto “liturgico”, sia fuori di esso),
ma che restano comunque impegnative, anche proprio a cominciare dal discorso linguistico, per la questione della pronuncia e della scansione sillabica e ritmica.
Partiamo dunque dai “Lieder” tedeschi di Johannes Brahms (1833-1897), compositore che erroneamente si crederebbe volto al solo repertorio strumentale o sinfonico,
ma che invece si interessò molto anche del mezzo vocale,
trascrivendo moltissimi canti popolari (Volkslieder) e dedicandosi al coro in particolare, organico di cui fu direttore in varie occasioni.
Infatti i Vier Gesänge, per coro femminile, corni e arpa, op.17, composti nel 1859, furono concepiti per un coro femminile amatoriale che il maestro aveva fondato e che pignolescamente guidava, a margine della propria attività di kappelmeister, organista e insegnante e animatore di vari salotti musicali privati.
Sono quattro piccole “gemme”, distillati di puro romanticismo letterario (poesiole strofiche d’amore e di struggimento, dove non a caso la parola-chiave è Sehnsucht),
per giunta nobilitati da una stupenda invenzione melodica e soprattutto dalla pregnanza armonica per cui il loro autore andava giustamente famoso,
nonché da una certa “patina di antico”, che per esempio si intravvede nel quarto canto, il più lungo e articolato della serie, evidentemente basato su un tema e su un ritmo di danza tardo-rinascimentale.
Inoltre, vi si fa un uso molto suggestivo e “naturalistico” (anche in questo senso, molto romantico) degli unici strumenti impiegati, cioè dei due corni (solisti: Ricardo Serrano e Salvatore Acierno) e dell’arpa (Agnese Coco),
i primi due dialoganti con il coro e spesso imbeccanti anche lo spunto melodico, l’ultima invece impegnata più che altro come supporto armonico.
In questo senso è d’obbligo menzionare la buona prova gli strumentisti di ieri, in particolare per l’ottima intonazione dei cornisti, peraltro messi alla prova dalle loro parti melodiche piene di salti intervallari.
Con i successivi Liebeslieder-Walzer, per coro misto e pianoforte a quattro mani, op. 52 (1869), si resta nell’ambito della produzione minore di Brahms, ma in un contesto ancor più leggero e festivo del precedente, quasi “cameratesco” direi, per giunta molto debitore delle atmosfere viennesi e dei ritmi ballabili così tanto in voga in quella città.
Ma detta così neanche basta, poiché invero si tratta di brani quasi epigrammatici, ma aventi ciascuno proprie caratteristiche e una studiata individualità, e con andamenti molto vari e cangianti, soprattutto da un punto di vista ritmico e dinamico, ma anche nel senso dell’articolazione interna tra i comparti.
Tutti elementi che, lasciando pure da parte il pianoforte a quattro mani, che d’altronde guida spesso decisamente il discorso musicale (in origine erano Brahms stesso e Clara Schumann che suonavano, ieri invece lo hanno fatto, ed egregiamente, Roberto Moreschi e Vincenzo Caruso),
tutti elementi, dicevamo, che richiedono al coro, per essere ben espressi e rilevati,
una grande duttilità, una compattezza nei passaggi più diversi, nelle improvvise accelerazioni (che mettono a dura prova la scansione verbale, per esempio) come nei rallentando,
una grande precisione negli attacchi, e soprattutto un calibratissimo dosaggio dei volumi sonori, che vanno dal quasi sospirato al declamato impetuoso e fortissimo.
Il direttore qui ha davvero lavorato bene, ottenendo ottimi impasti sonori e una gratificante varietà espressiva, e poiché sarebbe vano soffermarsi su ciascun brano,
ci limiteremo a segnalare l’attacco molto vezzoso del n° 4, l’ironico botta e risposta (o “antifonale”, se preferite) tra voci maschili e femminili del n° 5 e del n° 9,
l’inizio “in medias res” di sapore schumanniano del n° 10 (qualcosa di impensabile nella coeva produzione italiana), il sapore da “barcarola” sognante del n° 13.
Appena meno buoni risultavano i registri acuti delle voci femminili (nel n° 2 e nel n° 11, per esempio), che tendevano un po’ a stridere, ma solo qualche volta.
E anche il gesto direttoriale di Basso ha convinto e persuaso, sempre molto mobile ed attento, coinvolgente e sinuoso nei momenti più cantabili, e più oggettivo e metronomico in quelli dove era necessario seguire da presso il dipanarsi della trama polifonica
(altre volte il direttore era addirittura immobile, evidentemente quando tutto filava liscio e scorreva secondo i suoi dettami).
In tutt’altro clima ci portava la seconda parte del programma, con il Requiem per soli, coro e organo op. 48 di Gabriel Fauré (1845-1924): un clima religioso, vista la natura della pagina ed i suoi testi, e forse perfino mistico,
ma di una religiosità essenziale e composta, non proprio laica (benché si ritiene che l’autore fosse agnostico), ma intima e personalissima.
Sappiamo che Fauré lavorò abbastanza lungamente a questa messa da Requiem (1888-1900) e che, avendo scritto la musica,
dopo aver portato il numero complessivo dei brani costitutivi a sette (1-Introito e Kyrie, 2-Offertoire, 3-Sanctus, 4-Pie Jesu, 5-Agnus Dei e Lux Aeterna, 6-Libera me, 7-In Paradisum) e aggiunto la voce solista (baritono) al secondo e al sesto movimento, e quella di soprano al quarto, si dedicò infine all’orchestrazione.
Essa infatti prevedeva nella versione originale un organico strumentale di archi, arpa, timpani e organo, oltre alle voci bianche al posto dei soprani (quelle voci dei bambini che dovevano evocare meglio l’idea della purezza celestiale),
ma poi vide assommarsi, nella versione definitiva, anche legni e ottoni, e insomma andò a comporre un’orchestra sinfonica.
La bellezza dell’opera tuttavia non risiede nei colori orchestrali;
non siamo, qui, come di fronte a un Bolero di Ravel o a uno Sherazade di Rimsky Korsakov.
Qui invero si può fare perfino a meno dei timbri orchestrali, senza perdere di vista il succo dell’opera.
Ed infatti nella versione odierna presentata al San Carlo l’orchestra mancava del tutto, e così il lavoro veniva ricondotto alle origini della propria trama compositiva, rendendo possibile il toccare con mano, per così dire, la scabra essenzialità del coro a quattro voci su accompagnamento d’organo.
In questo modo molti “effetti” sonori certamente scomparivano, e qualcosa si perdeva anche in termini di dialettica musicale, ma in compenso si riusciva a seguire meglio la nuda intelaiatura polifonica e quindi anche ad apprezzare, e forse anche di più,
la semplice e scultorea bellezza delle linee melodiche e il finissimo trattamento del testo, che poi sono i tratti più originali e belli della tecnica compositiva (“formidabile e invisibile”, diceva Massimo Mila) del maestro francese.
Potremmo fare molti esempi, ma per brevità ci limiteremmo a tre o quattro, iniziando dall’episodio centrale del primo movimento, in corrispondenza dell’Exaudi orationem meam, quando si amplificano al massimo le dinamiche,
si inframezzano pause drammatiche alla scansione testuale e nella versione orchestrale essa si giustappone, con sicuro effetto teatrale, alla massa vocale.
Qui invece c’era solo, come detto, il coro sancarliano, opposto (e più spesso integrato) a un modesto organo, nudo e scoperto, peraltro esibito sul lato del palcoscenico
(dopotutto non siamo in una grande cattedrale gotica come quelle dove l’autore poteva sedere alla tastiera, al cospetto di un maestoso strumento dotato di mille canne).
Così l’organo, sdoppiando i suoi oneri e dovendo comunque provvedere all’accompagnamento, sgranava un meraviglioso basso camminato (o ostinato)
su una scala in tonalità di re minore (con possibili reminiscenze di tetracordi gregoriani), che a noi pare essere una delle cose più belle e suggestive di tutta la partitura.
L’organo era qui suonato ottimamente da Vincenzo Caruso.
Un altro momento topico è stato alla metà del secondo movimento (O Domine Jesu), dopo che soprani e tenori hanno svolto la loro polifonia (tecnicamente, e al modo antico, ciò si chiama “bicinium”), e c’è stato tutto un passaggio armonicamente molto ricercato:
si accende la parte del solista (baritono Giovanni Impagliazzo) e la voce declama in modo monocorde e quasi ipnotico il suo canto, scandito qui in modo molto lento ed espressivo.
Il “Pie Jesu” eseguito dal soprano, con una stupenda melodia in si bemolle maggiore, in modo “dolce e tranquillo”,
è stato reso famoso da un film francese con Dustin Hoffman dove c’è un ragazzino problematico con una stupenda dote canora che deve soltanto sbocciare, ma che ha pure il piccolo problema di non saper leggere la musica:
molto bene, qui, la resa non di un ragazzino, ma del soprano Laura Ulloa.
Nel “Libera me” torna il baritono che fa sfoggio di un bel timbro, ma è la musica in toto a rubare la scena:
il pulsare di violoncelli e bassi è supplito dall’organo con una sorta di “pizzicato” per tastiera, cui risponde il coro fino a sfociare nel clamoroso e roboante «Dies illa, dies irae».
Poi lo scenario drammatico sfuma repentinamente e cede il passo a una nuova supplica di pace per i defunti, finché il coro riprende la melodia del baritono. Tutto molto ben realizzato.
Pubblico non numerosissimo ma giustamente soddisfatto: qualcuno un po’ distratto applaudiva al termine di ogni brano, ma a parte questo non sarebbe forse stato inopportuno concedere ai presenti almeno un bis, che invece non c’è stato.