Al Teatro Mercadante di Napoli è in scena, in prima nazionale, Sarabanda di Ingmar Bergman nella versione di Renato Zatti, con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi per la regia di Roberto Andò; una co-produzione del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale con il Teatro Nazionale di Genova e il Teatro Biondo di Palermo (repliche fino a domenica 19 gennaio).
Dopo Scene da un Matrimonio, che un anno fa ha riscosso un buon successo di pubblico, Roberto Andò continua il suo viaggio nel cinema d’impianto teatrale di uno dei più grandi registi del Novecento, Ingmar Bergman, con Sarabanda, considerato il suo film testamento. Il grande cineasta svedese lo girò nel 2003 con una telecamera digitale, affidandolo a due attori simbolo della sua filmografia come Erland Josephson e Liv Ulmann. È concepito in dieci scene in cui, volta per volta, si avvicendano due dei quattro personaggi che ne compongono il disegno. Una struttura musicale che allude alla sarabanda, una danza per coppie solenne e lasciva che venne proibita nella Spagna del sedicesimo secolo, per poi essere adottata da grandi compositori come Bach o Handel. Qui si torna a parlare dei protagonisti di Scene da un Matrimonio diventati, trent’anni dopo, più maturi ma anche più spietati. Il loro è un ultimo confronto che, in presenza di un figlio e di una nipote, evidenzia le molteplici sfumature delle relazioni umane e familiari e la loro capacità di generare rimpianti, rimorsi, rancori. Il mistero dell’amore e dell’odio, l’ineluttabile conflitto tra genitori e figli, tra indifferenza e attaccamento morboso, la vecchiaia, l’angoscia degli ultimi giorni sono i temi di questa sarabanda che si scioglie nell’esecuzione di padre e figlia dell’omonima suite bachiana per violoncello.
«Il Bergman di Sarabanda – sottolinea Andò – non sembra credere più a nulla, è disperatamente distruttivo, e incatena i propri personaggi a un pessimismo totale sul senso delle relazioni umane. Come in Festen di Vitenberg, film molto amato da Bergman, non c’è salvezza per la coppia, come non c’è ricomposizione possibile tra padri e figli. Un inferno strindberghiano dove cova solo il disamore, un canto sulla mancanza d’amore che, nella sua intensità, si rovescia in una spasmodica ricerca d’amore».
Ciò che da subito si mostra allo spettatore è uno spettacolo dal forte impatto visivo ed emotivo. L’impeccabile eleganza formale – propria dello stile di Roberto Andò – si manifesta attraverso un impianto scenografico e di luci (entrambi affidati a Gianni Carluccio) prettamente cinematografico, con l’utilizzo di quinte e cieli neri che – spostandosi – creano gli spazi nonché i campi e i primi piani cinematografici (intuizione particolarmente felice).
Questa forma poi si sostanzia di contenuti forti ed emotivamente coinvolgenti, tali da impedire qualsiasi distrazione al pubblico che segue attentamente le dinamiche dei rapporti tra i quattro personaggi, che sono tutto ciò su cui si basa la pièce. Rapporti e conflitti (interiori ed esteriori) che si esplicitano in dialoghi serrati interrotti da silenzi, sguardi e gesti che più che corredare la messa in scena ne costituiscono un buon cinquanta per cento, impreziosendolo. E in questa profondità di sguardi, in queste frasi monche, in questi gesti lasciati in sospeso che si manifesta tutta la bravura e la forza interpretativa di Renato Carpentieri e degli altri tre formidabili interpreti, Alvia Reale, Elia Schilton e Caterina Tieghi, ciascuno portatore di una propria verità, di un proprio dramma e di un proprio sofferto vissuto.
Ancora una volta uno spettacolo emozionante e coinvolgente (che – fino a giugno – toccherà le maggiori piazze italiane) firmato da un regista che al teatro come al cinema non delude mai.