Al Teatro Mercadante di Napoli è di scena Umberto Orsini con Memorie di Ivan Karamazov, da Fëdor Dostoevskij, drammaturgia di Umberto Orsini e Luca Micheletti che ne firma anche la regia; una produzione Compagnia Umberto Orsini (repliche fino a domenica 5 maggio).
Scritto nel 1879/80, I Fratelli Karamazov è il capolavoro definitivo di Dostoevskij. Narra la vicenda di un parricidio, quello dell’arido Fëdor, di cui è accusato – ingiustamente – uno dei quattro figli della vittima, Dimitri, che viene mandato in un gulag siberiano. Suo fratello Ivan, preso dai sensi di colpa, si autoaccusa del delitto, anche se materialmente innocente, per aver istigato – con le sue teorie ateiste e nichilistiche – il fratellastro Smerdjakov. Il romanzo è un lungo racconto filosofico, che enuncia le dottrine di fine secolo che pervasero la società dell’impero zarista, vicino al tramonto: la Fede, il Libero Arbitrio, la Cattiveria insita nell’essere umano, la possibilità di una vera Redenzione. Tali dottrine sono enunciate o confutate da Ivan, il fratello letterato, che nel poemetto L’Inquisitore dà sfogo alle sue ansie e ai suoi deliri, alla ricerca di una Fede pura, se non in Dio, almeno nell’Uomo. Nel 1969, ai tempi d’oro della TV di Stato, fu prodotto l’omonimo sceneggiato diretto da Sandro Bolchi, con Corrado Pani, Salvo Randone, Lea Massari e il giovane Umberto Orsini nei panni proprio di Ivan, personaggio cui si è legato al punto tale da non scrollarselo più di dosso, in un gioco di identificazione che lo ha portato prima, una decina d’anni fa, a re-incontrarlo in Teatro con Il Grande Inquisitore, e oggi con questo nuovo adattamento. ”Sembra incredibile – riflette Orsini – ma è quasi mezzo secolo che conosco il signor Ivan Karamazov. L’ho incontrato in uno studio televisivo di Via Teulada, a Roma, e da allora ci siamo guardati nello specchio e ci siamo confusi uno nell’altro al punto di identificarci o de-identificarci. L’ho costruito giorno dopo giorno quell’Ivan, gli ho dato un aspetto severo, l’ho fatto diventare biondissimo, quasi albino, gli ho messo un paio di occhialini tondi e dei colletti inamidati di fresco. L’ho difeso da una sceneggiatura che lo penalizzava, battendomi per dare lo spazio adeguato all’importanza del suo “Grande Inquisitore”, inizialmente dato per troppo cerebrale e dunque probabilmente indigesto al grande pubblico. Con lui, specchiandomi in lui, ho trascinato il pubblico ad un ascolto record in una puntata dei “I Fratelli Karamazov” che lo vedeva impegnato in una discussione sull’esistenza di Dio. E, negli anni successivi, ho sempre cercato di seguirlo anche fuori dal contesto del romanzo, immaginando per lui una longevità e un finale che il suo autore gli aveva negato. E questo non-finito me lo sono trovato tra le mani oggi, come in-finito e dunque meravigliosamente rappresentabile perché immortale e dunque classico”. “Ci siamo chiesti – annota Micheletti – chi sia Ivan. Un personaggio, d’accordo. Ma anche l’incarnazione romanzesca di un nodo ideologico cruciale e, quindi, un alter ego dell’autore… Ivan è una creatura narrativa che, nonostante le diffuse connotazioni che lo descrivono e le molte pagine che Dostoevskij gli dedica, sfuma nell’imprendibile. È un protagonista che si sottrae alla centralità, è un’invenzione sospesa, quasi meta-teatrale. Sì, perché il nostro Ivan è anche un personaggio-ossessione, che accompagna cinquant’anni di carriera di un mirabile “capitan Achab” della nostra scena, un attore che insegue la sua balena enorme e veloce, la arpiona e si lascia trascinare…”
Micheletti e Orsini rappresentano, dunque, un Ivan invecchiato che, al termine della sua vita cerca di mettere un punto sulla sua intera esistenza di uomo/personaggio. Le bellissime scene di Giacomo Andrico, maestose per un monologo e – soprattutto – agite, indicano un vecchio tribunale, polveroso e pieno di oggetti vari, ricordi da buttare. L’incipit è tremendamente accattivante: “Il mio nome è Ivan Fjodorovic Karamazov. Sono un uomo cattivo, come lo è ogni uomo. E sono, per giunta, una creatura incompiuta”. Da qui si dipana la matassa di auto-accuse, recriminazioni per un processo sbagliato, intime riflessioni sulla natura dell’Uomo e sulla Fede, che abbindola ma è sfuggente persino allo stesso Inquisitore che non ama Cristo, perché non ama gli uomini. E tra una riflessione e l’altra, un megafono attaccato a una macchina, sicuramente opera del Demonio, emana la voce del giovane Ivan, quella di Orsini nello sceneggiato, mentre rende testimonianza al processo. Questa trovata scenica, che bene illustra la meta-teatralità enunciata, vale da sola tutta la regia, per il resto attenta e scrupolosa, nel toccare argomenti spinosi e complicati con delicatezza e chiarezza dell’enunciato. La maestria di un attore di lungo mestiere fa in modo da catturare sempre l’attenzione del pubblico, in una cavalcata di un’ora e dieci di monologo che non concede nessuna pausa ad un interprete sempre efficace e dalla forza straordinaria. Ciò che gli vale un’ovazione finale del pubblico con calorosi, meritati applausi.