Lo scrittore turco, premio Nobel per la Letteratura 2006 ha presentato in anteprima nazionale il suo ultimo romanzo dal titolo Le notti della peste
La vera star della prima giornata del Campania Libri Festival è stato lo scrittore turco, premio Nobel per la Letteratura 2006: Orhan Pamuk. Presso il Teatro di Corte del Palazzo Reale, l’autore dei capolavori: Il libro nero, Il mio nome è rosso, Neve, Istanbul, Il Museo dell’innocenza, La stranezza che ho nella testa, La donna dai capelli rossi, ha presentato in anteprima nazionale il suo ultimo romanzo dal titolo Le notti della peste (pag.707, Ed. Einaudi, Collana Supercoralli, traduzione di Barbara La Rosa Salim).
Nell’aprile del 1901 un piroscafo si avvicina all’isola di Mingher. Ne scendono due persone: il dottor Bonkowski, specialista di malattie infettive ed il suo assistente. Egli ha raggiunto l’isola per conto del sultano perché pare che sia scoppiata un’epidemia di peste. Il morbo viene confermato ma la vera difficoltà è quella di imporre alla popolazione le misure sanitarie restrittive affinché la peste non si propaghi. In quest’isola multiculturale dove convivono musulmani e cristiani ortodossi, la malattia funge da acceleratore delle tensioni sociali e tutti i suoi abitanti ne soffriranno e ne pagheranno le conseguenze.
Orhan Pamuk è stato intervistato da Antonio Gnoli.
Certamente Le notti della peste appartiene al romanzo storico e la Storia si interseca con il destino dei personaggi. La peste si abbatte su quest’isola immaginaria di Mingher con una potenza ed una forza tale da sovvertire gli equilibri sociali. Quando ha pensato di scrivere questo libro e perché proprio il morbo della peste?
«Ho pensato di scrivere questo romanzo ben 45 anni fa e quindi esso non è stato dettato dalla recente pandemia. Ho pensato alla peste perché ne avevano parlato altri scrittori che come me non avevano fatto esperienza diretta della peste: Alessandro Manzoni, Albert Camus, Leone Tolstoj, Joseph Conrad. E poi mi affascinava il fatalismo dei musulmani: se è destinato a morire, morirò. La peste ha sempre flagellato l’Europa, anche in Italia, nella Firenze del ‘300 ci fu la peste. So per certo, perché mi sono molto documentato prima di scrivere questo romanzo, che quando ci sono delle emergenze, soprattutto quelle in campo sanitario, i governi diventano autoritari e repressivi. Questo romanzo è un’allegoria politica su Erdogan, il presidente del mio Paese, la Turchia».
Penso che nel libro ci siano due tipi di allegoria: una politica e l’altra metafisica. La prima è legata ovviamente a personaggi dei nostri giorni, l’altra riguarda le esistenze dei singoli che vengono travolti dagli eventi della Storia. Perché ha dato spazio ad un io narrante femminile?
«“Non posso svelare molto del romanzo ma posso dire che questa volta le figure femminili sono importanti e funzionali alla narrazione. Nei miei primi romanzi le donne comparivano poco e le mie lettrici me ne hanno fatto una colpa. Tuttavia io sposterei l’attenzione sulle tre coppie che compaiono nel romanzo».
Quanto l’individuo, il singolo, incide o cambia il corso della Storia? Può essere vero anche il contrario?
«Penso che ciascun individuo possa cambiare o quantomeno influenzare il periodo storico nel quale vive ed opera. Soprattutto in una piccola realtà come è quella dell’isola di Mingher. Ma può verificarsi anche il contrario».
Il potere può avere una componente violenta ed autoritaria? Il personaggio di Kamill passerà dalla corruzione alla leggenda.
«Certamente sì. Bisogna però considerare che Kamill è un isolano e che quindi ha una mentalità ristretta. Gli eventi lo porteranno ad essere l’eletto e lui avrà un attacco di narcisismo. Ed ecco quindi che le vicende storiche cambiano le persone. Io però non mi sento di condannare i miei personaggi. Non esprimo nessun giudizio su di loro. Li affido ai lettori, alla loro tenerezza. Anche io, mentre scrivevo il romanzo, ho provato questo sentimento di tenerezza e di bellezza per i personaggi e per l’isola».
Crede che ci sia un equilibrio tra Oriente ed Occidente? Come vive questa relazione?
«Vedo in particolare la Turchia come una terra di mezzo e questo è un tema politico molto importante. Studiando le varie pandemia che si sono succedute nel mondo sono venuto a conoscenza di quella causata dal colera nell’800. Morirono più di 25 milioni di persone soprattutto in India ed in Cina. Mi sono chiesto perché non in America o in Europa. Questi Paesi si sono salvati per le loro conoscenze scientifiche, per una migliore qualità della vita, per una campagna di igiene, per aver quasi sconfitto l’analfabetismo. Negli altri Paesi i medici venivano sempre guardati come medici del paese colonizzatore e quindi non c’era tanta fiducia in loro. Oggi la Turchia è cambiata in meglio. C’è un alto tasso di alfabetizzazione e più informazione».
Nel romanzo c’è un gusto del fiabesco unito alla nostalgia. Cos’è per lei la cultura del Bosforo?
«Non credo di essere nostalgico. Scrivo dell’impero ottomano con ironia ed affetto ma sicuramente non voglio ritornare al passato perché sostengo i valori dell’Occidente. Erdogan enfatizza il passato, io no. Proprio per questo ho pensato ad un’isola che non c’è sulle carte geografiche, un piccolo mondo fantastico racchiuso in quelle 80 foto di cui parlo nel libro ma non voglio svelare nulla».
Il romanzo è attraversato da libri, citazioni. Gli esergo sono tratti da opere di Manzoni e di Tolstoj. Cosa rappresenta per lei la lettura?
«Sono un accanito lettore da quando avevo 15, 16 anni. Mi piace fare riferimento a libri che ho letto e ad autori che amo anche quelli più oscuri e remoti. Penso che i miti siano nascosti nei libri».
Il romanzo si chiude con la frase: “Viva Mingher! Viva i mingheriani! Viva La libertà”. Perché?
«Il romanzo è storico e quale popolo non ama o non ha mai amato la libertà? È un’allusione finale, non tanto velata, alla Turchia di oggi perché la libertà è un bene prezioso».