Non è da tutti raccontare di un amore voluto e perduto. Eliza Doolitlle, giovane cantautrice di Camden Town, Londra, lo fa con il disco In Your Hands, uscito questa settimana in Italia. Già i singoli Let It Rain e Big When I Was Little avevano stimolato la curiosità degli ascoltatori. Pareva non esserci traccia del buonumore spensierato dei suoi primi successi del 2010, come Pack Up e Skinny Genes. L’abbiamo incontrata per farci spiegare il cambio di rotta.
Come hai iniziato a scrivere i pezzi di In Your Hands?
«Avevo appena finito il tour dello scorso disco ed ero in Sud America. Avevo voglia di scrivere subito perché ero follemente innamorata. Ho chiamato i miei produttori Steve Robson e Wayne Hector e ho iniziato a lavorare tra Los Angeles e Londra. Poi è successo un imprevisto.»
Raccontaci!
«Ero in estasi e ho scritto i primi pezzi come Walking On Water e Don’t Call It Love. Ma l’amore è finito ed è cambiato tutto, anche il mio modo di lavorare. Credo di essere stata dura con i miei collaboratori all’inizio perché non accettavo consigli e volevo fare di testa mia. Poi con la fragilità è subentrato anche un maggior consiglio. Ho scritto No Man Can, che è una delle canzoni più forti della mia carriera, dal punto di vista dei testi. Anche il pezzo che è titolo del disco, In Your Hands descrive il mio bisogno di stare con quella persona, la desolazione per averla persa.»
Hai avuto successo da subito. Con il secondo disco cosa volevi dimostrare?
«Sicuramente di essere cresciuta, dentro intendo dire, di aver più esperienza e più cose da raccontare relative a un determinato periodo. Perché quando hai la possibilità di fare un primo album ci butti dentro tutto, poi dopo ne fai un altro e ti rendi conto che devi onestà al tuo pubblico, devi raccontare qualcosa in più di te.»
La tua formazione musicale da dove arriva?
«Sono cresciuta negli anni 90, tra Spice Girls e Lauryn Hill. Ma ho ascoltato molto hip hop o soft rock degli anni 70. mi piacciono anche i Foo Fighters. Non so come ma tutto ciò ha dei riflessi in quello che scelgo di cantare. Poi le grandi dive: Mariah Carey mi ha insegnato a cantare, nel senso che la imitavo. E Beyonce è una grande fonte di ispirazione, in tutto.»
L’hai mai incontrata?
«Sì, a una sfilata qualche tempo fa. Era vestita tutta d’oro. Ero ammirata, mi sono avvicinata e le ho espresso tutto il mio amore!»
A distanza di due anni da quando hai iniziato a scrivere, come ti sembra oggi In Your Hands?
«Colorato,onesto, che viene dal cuore. Credo che tutti gli artisti che ho ammirato nella mia vita, finora, mi abbiano sempre catturato per come descrivevano le loro emozioni. È facile accendere la tv e farsi influenzare dalle cose brutte che avvengono nel mondo. Ma un artista deve pure saper spiegare le sensazioni di quando ti svegli e dici: che bellissima giornata.»
Credi che scrivere di un fallimento sentimentale da giovane possa aiutare anche gli ascoltatori?
Certo, un po’ lo faccio anche per questo ma non c’è un disegno dietro questa decisione. Parlo di quello che mi va nelle mie canzoni. So che ci sono tante ragazzine che mi seguono e che magari possono trarre forza da quello che dico.
Chi ti segue nei concerti?
Metà sono giovani ragazze, l’altra metà sono tutti, maschi, mamme, curiosi. Sono orgogliosa di avere un pubblico prevalentemente femminile perché quando guardi i reality show alla tv ti rendi conto, almeno in Inghilterra, che a vincere sono sempre i maschi. Vedremo come sarò il pubblico nel tour italiano che farò quest’anno.