Stefano Pesce, dal teatro al cinema, alle fiction, è un attore tutto da scoprire. Per qualche anno ha vissuto all’ombra del più famoso Stefano Accorsi, colpa della sua somiglianza. Stefano Pesce, grande attore e grande uomo, ha avuto il coraggio di rifiutare alcune proposte lavorative che avrebbero potuto confonderlo con Accorsi. Pesce si consacra come uno dei migliori attori italiani in R.I.S. – Delitti imperfetti, nel ruolo di Davide Testi. Negli ultimi anni è stato Padre Isaia, gesuita intransigente ne Il tredicesimo apostolo, lo vedremo prossimamente nell’opera prima di Pietro Parolin, Leoni, e riprenderà in autunno la seconda stagione teatrale di Servo per due, uno spettacolo divertentissimo per la regia di Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli.
Abbiamo incontrato Stefano Pesce in occasione del Social World Film Festival.
Stefano, hai interpretato diversi personaggi, ma non c’è stato ancora oggi un film capace di consacrarti…
«Ah, questa qui è la mia croce, caro mio, nessuno mi ha ancora consacrato…»
…o sei tu che non hai voluto?
«No, io lo vorrei, eccome, bisogna essere molto onesti con se stessi e anche crudeli. Nel momento in cui io sono stato conosciuto, una decina di anni fa, contemporaneamente c’era Stefano Accorsi, al top della carriera, io sono stato associato a lui e ho dovuto girare il timone altrove, altrimenti avrei costruito una carriera inseguendo quello che faceva lui. Mi proposero di fare la versione televisiva di Romanzo criminale, nel ruolo del commissario, io naturalmente rifiutai, non avrei potuto interpretare il suo stesso ruolo in televisione. Credo di avere delle frecce nel mio arco, perché secondo me non sono stato sfruttato veramente.»
Quindi ora i tempi sono maturi?
«La cosa bella degli attori, per lo meno gli uomini, è che non c’è un’età oltre la quale non puoi può fare niente, perché invecchiando forse si migliora, soprattutto di recitazione.»
Ultimamente hai fatto Leoni per la regia di Pietro Parolin…
«Mi sono divertito come un pazzo, questo regista veneto, mi ha provinato, insieme a tutto il gotha del cinema italiano, io ho fatto il provino e quando sono uscito, sentivo che gridava: “Voglio lui, voglio lui!”.
Quando uscirà questo film?
«Spero vada a Venezia, lo sperano tutti, logicamente per la sezione Orizzonti. Leoni, vuole essere una commedia autorale, Brancaleoni di Rai Cinema, al quale ho sottoposto altri miei soggetti, è contento del risultato, per cui secondo me ci sono delle possibilità.»
Quindi, vorresti iniziare anche come sceneggiatore…
«Più che come sceneggiatore, sto iniziando a proporre un mio soggetto. Rai Cinema sta valutando “Papà non sta bene”. Un progetto che ho presentato quattro anni fa Francesco Bruni, il quale, proprio all’uscita di un cinema, lui era con sua figlia ed io con la mia, gli chiesi di leggere il soggetto e lui con aria molto scocciata, mi rispose…lo leggo. Passano gli anni, sviluppo il soggetto, ne faccio una sceneggiatura, che non piace, ritorno al solo soggetto e lo propongo a un mio amico che vuole fare l’opera prima. Mi dice subito di sì e poi lo porta a leggere ad un suo amico. Quell’amico era Francesco Bruni, il quale, dopo quattro anni si ritrova davanti lo stesso soggetto. Questa volta, però, non lo boccia, così “Papà non sta bene” arriva in Rai..»
Le sorti de Il tredicesimo apostolo.. ci sarà una terza stagione?
«Di sicuro non c’è, perché l’audience che ha fatto è troppo basso e non basta per la raccolta pubblicitaria. Il progetto è troppo costoso e il 13% di share non è sufficiente per realizzare una nuova edizione.»
Secondo te perché non ha avuto questo successo?
«Ha avuto un grosso successo il primo, perché era una novità. Il secondo era diventato più cupo, più specifico. A mio parere non è positivo un prodotto che inizialmente sembra che porti la firma di Martin Scorsese e dopo qualche secondo si trasforma ne I Cesaroni, nonostante a girare le scene sia lo stesso regista. Questo è il problema del prodotto in Italia, quando hai una rosa di competitors sulle tv in chiaro, a pagamento con i telefilm americani, la gente non ti segue al 20% ma al 13%, ed è già un bel colpo.»
Cosa pensavi del tuo ruolo?
«La gente non lo sa, ma mio padre è un famoso giudaista italiano, studia la storia del cristianesimo e del giudaismo, come il cristianesimo è nato dal giudaismo, quindi questo personaggio gesuita, Padre Isaia che io interpretavo, l’ho studiato con mio padre e gli ho chiesto: “mi dici a chi assomiglia?” e lui mi ha risposto “Stefano, ti devi leggere le lettere che Ratzinger scriveva a monsignor Lefebvre quando lui fu scomunicato, e quindi la destra cattolica, che pensa alcune cose, contraria a tutti i formismi” e allora l’ho impostato al contrario del personaggio di Claudio Gioè, che interpretava Padre Gabriel Antinori, la parte rinnovatrice e progressista della Chiesa. Tutte le battute le ho tradotte in latino e poi ritradotte in italiano, infatti, se mi ascolti parlare, pensi che io abbia una strana costruzione del pensiero, perché proprio così diventa antico.»
La tua ultima commedia a teatro è “Servo per due”. Proseguirà anche la prossima stagione? Qual è il tuo personaggio?
«Sì, da novembre e fino a metà febbraio. Interpreto il tipico ragazzotto poco talentato che ha voglia di far l’attore, però passano gli anni, ha i capelli bianchi e guarda sempre il padre in scena, perché il padre è il suo riferimento, poverino. È tutto ambientato nella Rimini degli anni venti, è adatto al mio dialetto, la mia voce è sintonizzata su quelle note della radio, dei colletti bianchi di un certo periodo, che però si scade nell’emiliano, dando questa doppia velocità del personaggio.»
Sempre per il teatro tu hai scritto un monologo…
«Ho scritto un monologo a cui tengo molto, che per la verità non ha avuto molto successo, perché molto complicato, si chiama Crisi. È diventato La crisi, la pratica perfetta, ed è la storia semiseria di un impiegato ministeriale alle prese con una pratica ministeriale, che gli torna sempre indietro, perché il consulente politico del ministro non gliela firma, e non si sa il perché. Poi si scopre alla fine che non gliela firma perché non ci sono i soldi. In realtà non è una pratica ma un bilancio, e non glielo firmano perché il ministero non ha i soldi. Questa pratica simboleggia la paura del cambiamento che ha l’italiano medio, in questo momento storico di crisi. Lui fa per bene il suo lavoro, ma non capisce perché non decolla. La crisi si manifesta nel fatto che lui la sera esce e saltella per le strade della città, tentando di capire qual è la soluzione. Tutto questo lo racconta allo psicoanalista, che non parla, ma suona un sassofono. Alla fine l’impiegato capirà che non è colpa di nessuno della sua situazione, se non la sua, che ha paura di cambiare. Secondo me questo è un tema piuttosto interessante, tant’è vero che un regista è venuto a vedere lo spettacolo e ha voluto trasformarlo in una sceneggiatura per il cinema. Ora sto aspettando il responso di Fandango.»