Ricorre spesso la parola ironia nella presentazione del secondo lavoro de Il Cile, al secolo Lorenzo Cilembrini, che torna sul mercato questa settimana con “In Cile veritas”, un album contenente dieci brani inediti su etichetta Universal Music. Il disco, a due anni dall’uscita dell’acclamato album d’esordio “Siamo morti a vent’anni”, è un compendio di tutto l’universo che sta a cuore al cantante aretino amato da un pubblico transgenerazionale, che va dal colto allo street kid. C’è dentro l’ironia e l’amarezza dei tempi che viviamo, la presa di coscienza generazionale (anche se lui spiega di non esserne convinto) e ovviamente l’amore, quello viscerale, quello che l’ha fatto conoscere ai più muovendo grandi sensazioni con la musica che crea.
Come hai affrontato questa seconda prova?
«Ho aspettato i tempi giusti, ho cercato il tempo per la maturazione dei testi che derivano nel mio caso sempre da un tormento interiore sentimentale. Però poi ci siamo presi una settimana con la mia band e il mio produttore Fabrizio Barbacci per registrare tutte assieme le tracce dal vivo. Quindi il feeling rock è preservato.»
Sei un cantautore noir?
«Solo la canzone Liberi di Vivere è fuori dal mood generale del disco, poi per il resto c’è sempre una visione nichilista e ironica, anche se la densità emotiva che metto nelle canzoni mi fa restare in bilico tra il chiaro e scuro, il che mi piace. Devo dire che forse iniziano a esserci più chiari nei miei brani e vorrei sviluppare questa direzione in futuro.»
In questo momento, se un cantautore italiano pubblica testi impegnati fa da “risposta” alla rabbia dei rapper. Che ne pensi?
«Anche io da adolescente ascoltavo i Nirvana perché erano annientatori e rappresentavano la rottura. Poi crescendo mi sono appassionato ad altro. Capisco l’euforia dei ragazzini per il nuovo rap italiano, anche io ho collaborato con molti esponenti di quel genere e li rispetto. Ma io non sono propriamente uscito con un disco generazionale, a me piace essere osservatore della realtà e interpretarla a modo mio. Poi se mi scrivono ragazzi sui social network dicendomi che si rivedono in quello che dico, mi fa piacere.»
Credi all’ideale dell’artista per se stesso?
«Non prendiamoci in giro, fin da quando ero in cameretta a strimpellare sognavo non la fama, ma di portare la mia musica a quanta più gente fosse possibile. Quindi ammetto che già la parola artista mi crea difficoltà, figuriamoci la favola di far musica per se stessi. Sarebbe tutto inutile.»
Hai chiamato il disco in latino parafrasando una massima sul vino: in vino veritas…
«In verità non vorrei sembrare spaccone, è un gioco di parole, non racconto verità assolute. Mi è sempre piaciuto il latino e ricorrono spesso riferimenti a quel mondo. Ho frequentato il liceo scientifico per mia sfortuna, solo perché mi ero basato sulla percentuale di donne che c’erano. E non ho scelto il classico nella mia città.»
Senti la responsabilità di quello che scrivi dopo essere stato acclamato al debutto?
L«e opzioni erano due: o facevo dei titoli solenni o abbracciavo l’ironia della provocazione. E il titolo e tutto il disco riflettono le mie origini, la civiltà agreste da cui provengo. In Toscana ho vissuto la vendemmia, mi piaceva mettere riferimenti a quel tipo di origine. Come quando ho letto che nelle canzoni dei Nirvana tra le parole più usate c’era “gun”, pistola, chissà se inconsciamente Kurt Cobain non volesse mandare messaggi. Ho tra l’altro sempre adorato il titolo di Zucchero Oro Incenso e Birra, quindi era il momento di fare qualcosa di mio.»
Come affronti il tuo lavoro?
«Ho spesso fatto lavori che non mi piacevano per sostentarmi ma mi mettevo alla prova proprio perché non volevo perdere l’energia dirompente dell’istinto creativo che sentivo dentro. Ora è bellissimo, sono soddisfatto. Ma mi sono anche reso conto che questo è un ambiente in cui per fortuna o meno, devi sempre migliorarti, progredire, andare avanti. Ecco perché i grandi sono grandi e non hanno alcuna voglia di smettere. È una professione che richiede sempre un gradino in più. Ed è come una droga, lo vuoi raggiungere.»
Chi tra questi grandi stimi di più?
«Per me i Negrita sono un gruppo di riferimento, ho avuto la fortuna di lavorare con loro, dividere il management e il produttore, quindi per me sono eccezionali e rappresentano un momento della mia carriera irripetibile. Poi ho incontrato Ligabue, che dal vivo ha una tecnologia e un rapporto incredibile con le folle. Ho conosciuto Lorenzo Jovanotti e ho capito perché è arrivato dove è arrivato. Ora mi resta Vasco Rossi ma tutti mi dicono sempre che è impossibile conoscerlo.»
Il disco si apre con un brano molto intimo, Sapevi di Me, che si riferisce a una relazione chiusa.
«Ai tempi quella relazione fu un vortice di tormenti e trasgressioni, dovuto anche alla condivisione di tante situazioni di vita complesse. È grazie a quel rapporto che ho imparato a vivere allargando i miei orizzonti, a guardare il mondo senza paraocchi. Con lei riuscivo ad aprirmi come non ho mai fatto nemmeno con il mio migliore amico. Nel testo riemergono i ricordi di lei.»
Il singolo estivo invece è stato Sole cuore alta gradazione. Perché?
«Volevamo qualcosa di più leggero e fare qualcosa di ironico per le radio. Il titolo volevo che fosse più tragico, con la parola “distruzione”, poi ci ho ripensato. Prendo in giro i tormentoni estivi e faccio anche un riferimento a Una Tribù che Balla di Jovanotti, mentre la mia “traballa”.»