Al Teatro San Ferdinando di Napoli è di scena Lino Musella in Pinter Party, testi di Harold Pinter tradotti da Alessandra Serra, con Paolo Mazzarelli, Betti Pedrazzi, Totò Onnis, Eva Cambiale, Gennaro Di Biase, Dario Iubatti, Ivana Maione, Dalal Suleiman e con la partecipazione in video di Matteo Bugno, per la regia di Lino Musella; una produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale (repliche fino a domenica 21 aprile).
Pinter Party è un composé di tre testi degli anni ’80 e ’90, tra gli ultimi del grande drammaturgo inglese: Il Bicchiere della Staffa, Il Linguaggio della Montagna e Party Time, in cui viene indagato il rapporto tra potere e violenza e tra potenti sopraffattori e cittadini inermi e schiavi del potere.
«Nel 1999 – dichiara Lino Musella – presentai per l’esame d’ammissione al corso di Regia alla Civica Paolo Grassi di Milano un progetto che metteva insieme questi tre brevi atti unici di Pinter. Già allora, nonostante la mancanza di esperienza umana e professionale, sentivo che quelle drammaturgie mi colpivano nel profondo, forse perché Pinter, come Eduardo e Shakespeare, è stato anche attore e le relazioni tra i personaggi e le dinamiche create in scena richiedono agli interpreti una spiccata sensibilità e la capacità di comprendere i contenuti più profondi. Nei tre lavori si alternano, in racconti diversi, le vicende dei tanti oppressori della Storia: hanno voci e volti di esseri umani, sono protagonisti assoluti, quasi a volte divertenti, sicuramente divertiti; la condizione dei popoli oppressi è mostrata attraverso la rappresentazione degli oppressori. Nonostante le evoluzioni nel mondo, continuo a sentire in queste tre opere una forza incredibilmente attuale».
Così, se nel Bicchiere della Staffa assistiamo ad un interrogatorio seguìto a giorni di tortura di un dissidente politico, che ci rimanda all’Argentina di Videla o al Cile di Pinochet, nel Linguaggio della Montagna gli oppressi perdono il diritto di esprimersi nella loro lingua, che viene sostituita da un linguaggio più urbano dei “civilissimi” conquistatori (come non pensare alla tragedia degli Ucraini sotto il regime di Stalin?). Infine, in Party Time assistiamo ad una squallida festa in costume degna del crepuscolo del Terzo Reich, dove è addirittura proibito parlare di argomenti scomodi (“Qualcuno ha visto Jimmy?” continua a domandare, senza ricevere risposta, una sventurata invitata cercando di trovare il fratello desaparecido) e dove, una volta per tutte, si evidenzia tutta la banalità del male. A far da corollario a questi brevi atti unici, il discorso che Pinter tenne alla Reale Accademia di Svezia, in occasione del ritiro del Premio Nobel, assegnatogli nel 2005: discorso sferzante sulla politica imperialista degli Stati Uniti, sull’uso sistematico della menzogna per giustificare l’aggressione armata contro altri Paesi (all’epoca era l’Iraq di Saddam Hussein) e sull’impossibilità di esportare la democrazia a suon di bombe (Afghanistan), che ci riconduce, tristemente, alla realtà dei nostri giorni.
Al levarsi del sipario, tre parole campeggiano sulla scena: Arte, Verità, Politica. Lo spettacolo si impegna a dimostrare come questi tre concetti siano inscindibili l’uno dagli altri (altro tratto che accomuna il Teatro di Pinter e quello di Eduardo e di Shakespeare). Le scene buie, scarne e deserte (spesso si trovano a dialogare due personaggi in uno spazio enorme) hanno l’effetto voluto dello straniamento, dell’oppressione e – per converso – della claustrofobia. Soltanto l’ultima scena (o atto) si popola di personaggi strani, buffi e sinistri, come usciti fuori da un incubo, che si affannano a tenere il passo di un girotondo senza fine, che rievoca l’insensatezza del potere finalizzato a se stesso. Anche se, come accadeva nelle tragedie greche, i momenti più efferati avvenivano fuori scena, e subito dopo raccontati da un messaggero, anche qui le atrocità non vengono mostrate ma suggerite dagli atteggiamenti dei protagonisti, tuttavia in questo spettacolo tutto è violenza: fisica, psicologica, sessuale, anche quando i “mostri” si intrattengono a parlare del più e del meno.
Tutti i protagonisti delle tre pièce sembrano partecipare della decadenza di un mondo che sembra sul punto di crollare ma che – eternamente – si rigenera per imputridire nuovamente. Lino Musella mette su un cast di attori e attrici di grande valore che hanno – evidentemente – scavato a lungo nei recessi più bui della propria anima, come regia voleva, per dar prova della ferinità dei personaggi. La compagnia crea un amalgama che ben corrisponde alla visione del regista, che è chiara, coerente e organica, anche quando innesta – tra un atto e l’altro – parole extra-testuali di Pinter e di Eduardo e quando proietta immagini dure sulla condizione dei Curdi, popolo oppresso e minacciato da decenni. Qui nulla è inserito a caso, tanto per allungare il brodo, o in maniera criptica e incomprensibile. Forse è questa chiarezza la dote migliore di Musella, che rende questo spettacolo tanto atteso un vero successo di pubblico.