In scena, al Teatro San Ferdinando di Napoli, La Lupa di Giovanni Verga nell’adattamento teatrale di Luana Rondinelli, con Donatella Finocchiaro, che ne cura anche la regia, Bruno Di Chiara, Chiara Stassi, e con Ivan Giambirtone, Cosimo Coltraro, Alice Ferlito, Laura Giordani, Raniela Ragonese, Luana Rondinelli, Federica D’Amore, Roberta Amato, Giuseppe Innocente, Gianmarco Arcadipane; una produzione del Teatro Stabile di Catania (repliche fino a domenica 10 marzo).
Scritta da Verga in forma di novella nel 1880 e più volte portata in scena – a partire dal 1896 con la Compagnia Virginia Reiter e Flavio Andò, al 1921 da Maria Melato, al 1965 nell’acclamata regia di Franco Zeffirelli con Anna Magnani, ed anche sul grande schermo da Alberto Lattuada nel 1953 a Gabriele Lavia nel 1996 con Monica Guerritore – La Lupa narra la tragica tresca tra Gnà Pina, giovane e ancora avvenente vedova, chiamata la Lupa dalla gente del paese per la sua disinvolta e “scandalosa” condotta sentimental-sessuale, ed il giovane bracciante Nanni Lasca, al quale concederà la mano di sua figlia Mara pur di non perderlo.
«La mia Lupa – sottolinea Donatella Finocchiaro – è una donna che non si vergogna della sua sensualità e viene per questo additata dal contesto sociale perché libera, strana, diversa. Lei, che di quella tentazione amorosa e carnale per il giovane Nanni si considerava la vittima. Anche Nanni cade in questo vortice, si trascina a ginocchioni in penitenza lungo la processione, ma non riesce a liberarsi dalla tentazione della Lupa. Il gioco tra vittima e carnefice è un gioco al massacro. Nel testo viene amplificato il punto di vista della donna e della possibilità di vivere la propria vita sentimentale e sessuale liberamente, a dispetto di un ambiente retrogrado sempre pronto a puntare il dito contro quello che succede nelle vite e nelle case degli altri. Saranno loro a giudicare e sobillare Nanni che confesserà al prete il bisogno di liberarsi. Liberarsi da cosa? Dalla tentazione rappresentata dalla Lupa. Dall’inferno in cui lei lo costringe. E noi donne siamo le vittime che vengono uccise perché non riesci a liberarti di loro».
Testo e contesto servono, dunque, a parlare di una piaga sociale – quella del femminicidio – ora più che mai sentita. Ad avvicinare a noi questa storia è anche l’ambientazione spostata in avanti, nei primi anni Sessanta del Novecento, periodo in cui ancora il femminicidio era tollerato sotto il nome ipocrita di “delitto d’onore”, e pertanto non perseguito. La regia della Finocchiaro insiste sull’aspetto sociale del dramma, puntando il dito proprio sulle donne del paese che, lungi dall’avere una solidarietà femminile, sono le prime accusatrici e giudici della Gnà Pina.
Le troviamo, al principio dello spettacolo, sedute in proscenio, nella piazza del paese, a tessere, come le tre parche, trame di malevolenza travestite da canti liturgici; le ritroviamo poi, nel corso dello spettacolo, a far da coro e controcanto alla vicenda. Una vera e propria tragedia greca, in cui non vi sono eroi positivi, fatta eccezione della bella e ancora pura Mara, interpretata dalla bravissima Chiara Stassi, che – come una novella Ifigenia – viene condotta al martirio di un matrimonio combinato e non voluto. Intensa quanto ammaliante l’interpretazione di Donatella Finocchiaro nel doppio ruolo di protagonista e regista che, se da un lato rivela una certa frequentazione col teatro di Emma Dante, dall’altro se ne distacca per raggiungere un andamento più concreto e meno stilizzato. Lo si nota anche dalle ariose scene di Vincenzo La Mendola (che firma anche i costumi). L’affiatamento tra gli attori della numerosa compagnia – primo fra tutti il convincente Bruno Di Chiara nel ruolo di Nanni – dona agilità e ritmo sostenuto allo spettacolo, accolto con favore di pubblico alla prima.