Egidio Carbone, nel mese di agosto nel salernitano e a Napoli, sarà impegnato nella versione cinematografica de La bufaliera con Enzo Moscato.
Egidio, si tratta di un testo di grande attualità che racchiude conflitti, crisi, umanità, come è nata l’idea di questo lavoro?
Semplicemente scrivevo senza sapere fino in fondo cosa stavo scrivendo, insomma lo facevo perché strabordava da me questa tauromachia esistenziale che poi ho capito essere un tratto indicativo del mio modo di essere. Per qualche anno è accaduto che mi fermavo a scrivere dialoghi che sembravano essere pezzi ad incastro tra loro nella mia inconsapevolezza. Solo alla fine ho capito che era La Bufaliera, era mezzanotte ed ero in una Renault cinque verde quando mi balenò in mente il titolo. Ancora oggi gli allevatori mi correggono dicendomi che le loro case, i loro luoghi di lavoro, si chiamano bufalare e non bufaliere. È una cosa che mi diverte molto perché nel mio testo non c’entra niente la vita nelle bufalare e non c’entrano niente le bufale e le mozzarelle, la mia è La Bufaliera non una bufalara.
Un testo messo in scena anche al San Carlo, tradotto in lingua araba, che ora diventa un film. Che tipo di trasposizione cinematografica è e come mai hai scelto il grande Moscato?
Quella volta al San Carlo fu un’esperienza meravigliosa, avevo trentadue anni e vivevo un altro sogno a occhi aperti. Moscato è un sentiero nel bosco che non ama essere illuminato da luce artificiale ma che va solo percorso nel silenzio del buio, da molti anni condividiamo quella che lui definisce una vocazione e questo vale più di ogni collaborazione fatta insieme, perché quest’ultima è solo un momento naturale di un percorso lungo. Moscato è nel film, sì ma soprattutto è nel mio quotidiano.
Nelle tue pagine sembra di sentire perfino gli odori della Bufaliera quindi una versione filmica aiuterà il verismo, ma che scelte registiche hai fatto per questo film?
Ho capito nel tempo, lavorando e seguendo il mio istinto creativo, vivendo il lavoro sul campo, che le mie scelte registiche hanno una matrice ben precisa, un luogo di confine dove fisica e metafisica si fondono e, in equilibrio, percorrono tratti di fune sospesa nell’aria senza reti di protezione. Ecco, mi piace pensare d’essere un funambolo della rappresentazione che si prende i suoi rischi ma che preferisce essere sempre se stesso, crudo, diretto anche se a tratti incatturabile. Ma così è la vita o almeno la vita che vivo io e che voglio rappresentare.
Mi parli della scelta del cast?
Attori con l’esperienza e la vocazione del teatro, in alcuni casi attori che hanno dedicato la vita esclusivamente al teatro. Perché è vero che stiamo parlando di un’opera cinematografica e che il cinema è per molti versi differente dalla messa in scena dal vivo, ma un attore è prima di tutto un conoscitore dell’essere umano, l’attuatore della sua rappresentazione e il teatro è il luogo simbolo in cui tutto questo avviene. Ma soprattutto ho scelto le persone, amici affini con cui condivido questo cammino felicemente non rettilineo da anni, attori che hanno ben presente quali sono i tempi e le modalità, non brevissime, faticose e per certi versi mie specifiche, che preferisco adottare. Stimo e ho un rapporto personale con gli artisti che lavoreranno al mio film, così anche per i professionisti della troupe.
Anche musica e pittura nel film, quali e come interagiscono?
Credo nei simboli più che nelle parole. I simboli inducono a pensare, le parole spesso solo a rispondere frettolosamente. Le parole hanno il sapore delle menzogne. In questo progetto sono riuscito a coinvolgere un grande pittore, Nello Petrucci, è un amico ma soprattutto è una persona che sa emozionarmi. Così come Umberto Ligrone, un pittore ma in questo frangente ho scelto le sue opere in ceramica. Ma poi c’è Giulia Malafronte, un architetto scenografo dalla sensibilità infinita. Tanti altri. Insomma, ci divertiamo e proviamo a dire la nostra in una concezione lontana dalle logiche puramente del commercio e del marketing.