In scena, al Teatro Nuovo di Napoli, La Valigia di Sergei Dovlatov nella versione di Laura Salmon, con Giuseppe Battiston, adattato e diretto da Paola Rota; presentato da Gli Ipocriti Melina Balsamo (repliche fino a domenica 26 febbraio).
Scomparso nel 1990 non ancora cinquantenne, il giornalista-scrittore russo Sergei Dovlatov vide le sue opere pubblicate negli Stati Uniti e in Europa dopo il 1978, anno in cui emigrò a Vienna, e da lì a New York, dove raggiunse la moglie e la figlia, divenendo redattore del giornale “New American”. Prima di allora i suoi romanzi erano circolati in Unione Sovietica come copie clandestine. La valigia, pubblicato nel 1986, qui diventa il monologo dell’autore, speaker radiofonico, in procinto di partire in cerca di libertà. Quando si va via per non tornare mai più, come si guarda ad ogni oggetto che si lascia? E soprattutto, come si guarda ad ogni oggetto che si prende con sé? E questi oggetti, che peso avranno nella nostra nuova vita?
«Pare ci sia un test psicologico – annota Paola Rota – per capire lo stato d’animo di chi parte per sempre: scegliere otto oggetti, associarne un ricordo e poi un sentimento per ognuno, il sentimento prevalente sarà lo stato d’animo dell’emigrante. Il sentimento di Dovlatov non è solo la libertà, ma qualcosa di più profondo che dove è arrivato non è così facile trovare. La Valigia è il contenitore immaginario di una storia dissacrante e ironica, e il suo protagonista Sergei Dovlatov si racconta attraverso l’amore e l’odio (ma più d’amore si tratta a dire il vero) verso il paese che ha lasciato. Lo fa per mezzo di una carrellata di personaggi, quasi fantasmi che riemergono da una memoria tanto lontana quanto vivida: uomini e donne raccontati con i filtri della distorsione e della comicità».
Un’insolita messa in scena per un insolito racconto, quella che Paola Rota realizza col talento affabulatorio di Giuseppe Battiston, qui alle prese con un personaggio complesso e irriverente. Ma il protagonista Dovlatov non è l’unico personaggio che vive attraverso la voce e il corpo dell’attore. C’è, infatti, in questo monologo, una serie di personaggi che rivivono tramite la sua memoria, tutti puntualmente tratteggiati e caratterizzati, ciascuno con la sua umanità e i suoi difetti, che tuttavia non vengono mai giudicati ma, piuttosto, compresi e offerti al pubblico come su di un vassoio di paste assortite. L’ambientazione stessa della pièce, uno studio radiofonico dai mille microfoni, ricreato dalla scena di Nicolas Bovey, sembra suggerire la polifonia dei ricordi che si affollano nella mente dell’autore. Al suo arrivo a New York, Dovlatov lasciò la sua valigia chiusa in un armadio per anni. Forse perché, com’egli dice, la vera valigia siamo noi.