Buon successo di pubblico al San Carlo per il Tristan und Isolde di Richard Wagner, nella ripresa di quello che era stato uno storico allestimento operistico firmato da Lluìs Pasqual una ventina di anni fa, poi riascoltato a Napoli nel 2015 con la direzione di Zubin Metha. L’attuale riproposizione era affidata alla regia di Caroline Lang e alla bacchetta di Costantin Trinks, direttore tedesco al suo debutto sancarliano così come anche alcuni cantanti del cast, tutti artisti internazionali ben rodati in questo repertorio, benché il soprano svedese Nina Stemme – originariamente compresa nel cast – sia stato sostituito all’ultimo momento, per un malore, dall’inglese Catherine Foster.
Premettiamo che in un’epoca come quella attuale, votata al consumismo anche dei sentimenti, la tragedia medievale dell’amore di Tristano e Isotta e della loro cieca sottomissione a “Frau Minne”, la dea dell’Amore, a cui sacrificano la fedeltà coniugale, l’onore cavalleresco, l’amicizia, la ragione stessa e perfino la propria vita, può ancora avere una certa presa, ma anche correre il rischio di essere banalizzata. Però in realtà nel Tristan und Isolde di Richard Wagner c’era e c’è più di questo. Nel riprendere e rimanipolare la narrazione in versi di Goffredo di Strasburgo, il compositore probabilmente risentì di alcuni elementi autobiografici, oltre che dei temi squisitamente romantici del dissidio irriducibile tra istanze opposte e dell’anelito alla morte catartica, come pure di una concezione filosofica vicina al pessimismo (l’impossibilità del vero appagamento); ma soprattutto volle e seppe tradurre il tutto in termini di fortissimo misticismo musicale.
E tuttavia questa partitura meravigliosa, degna di stare nel pantheon dei capolavori dell’umanità, con Dante, Shakespeare o Michelangelo, si rivela tale solo a condizione che la musica si sprigioni in tutta la sua ricchezza e sia eseguita con ogni cura e zelo. Solo così il famosissimo “accordo di Tristano”, in cui è composto e cucito assieme fin dall’inizio, con procedimenti squisitamente armonici, il tema del desiderio e quello della sofferenza, e poi anche tutti gli altri memorabili leitmotiv che si incontrano e si scontrano per i tre atti dell’opera e lungo quasi cinque ore di musica (tema del filtro magico, dello sguardo, del cofanetto, la nenia pastorale del terzo atto, ecc.), solo così, insomma, ogni nota attraversa felicemente lo spazio scenico e raggiunge il cuore dell’ascoltatore; innescando in lui, dopo averlo fatto rabbrividire di emozione, un meccanismo di risonanza interiore e di identificazione per cui comprenda subito l’ineluttabile verità di cui tale musica è messaggera.
Ma, per l’appunto, la condizione perché questo avvenga appieno è che si abbia un’esecuzione superlativa. Il che nella presente occasione non è stato, a onor del vero, o almeno non sempre, soprattutto a causa di un certo calo di tensione narrativa (il meno riuscito dei tre atti, in questo senso, ci è parso essere il secondo, che poi è naturalmente quello del lunghissimo duetto d’amore, ma è anche il momento in cui più si “filosofeggia” e quello con una completa stasi narrativa) e forse anche per qualche manchevolezza nella concertazione.
Ciò detto, non addossiamo quasi alcuna responsabilità all’orchestra, che davvero anche stavolta ha mostrato di fronteggiare bene, singolarmente e come organico, una sfida tecnica di livello così elevato: scattante e frizzante quando serve, o impetuosa, piena e sonora, oppure ancora morbida e graziosa all’occorrenza, insomma essa ha davvero raggiunto livelli di piena affidabilità (sia gli archi che i fiati). E, fermo restando che mai come in questo caso qualche prova in più avrebbe giovato, non è neanche tanto “colpa” del direttore Trinks (che per ironia del destino si chiama quasi come il verbo “bere” in tedesco, che tanta parte ha nella storia dei due amanti che bevono il filtro d’amore), il quale da parte sua forse non ha, tra le frecce al suo arco, un gesto eloquentissimo, ma che certamente aveva una visione mentale chiara della partitura, nonché la capacità di far intendere ciò che voleva evidenziare. Tanto meno direi che fosse una questione di tempi scelti, poiché ad esempio anche il celeberrimo preludio iniziale, che a qualcuno è parso un po’ lento e troppo dilatato, se lo si confronti con quello che faceva Toscanini, non è che risultasse tanto diverso.
È semmai nel rapporto tra golfo mistico e palcoscenico che si avvertiva qualche sfasatura e qualche impaccio: senz’altro nei volumi sonori, visto che le voci a tratti erano poco distinguibili; e in generale nella cura di queste parti vocali, che a noi son parse corrette tecnicamente, ma non abbastanza espressive e ancor meno “emozionali”, anzi come distaccate da una vera partecipazione interiore a ciò che si eseguiva, e quindi fini a se stesse. Questo vale di più per i due protagonisti (che d’altronde erano sovraesposti), ossia il Tristano di Stuart Skelton, reso in modo poco espressivo e un po’ impacciato, e la Isotta della Foster, e un po’ di meno per gli altri: René Pape nel ruolo di re Marco, Brian Mulligan in quello di Kurwenal, e Okka von der Damerau in quello dell’ancella Brangäne.
Per quanto riguarda la regia, Wagner chiamò il Tristan “Azione in tre atti”, e la definizione dovette colpire il pubblico di allora così come quello di oggi, visto che proprio l’azione in scena sembra mancare, in quanto ciò che agisce è tutto sotterraneo ed interno ai personaggi. Detto ciò questa realizzazione, pur bella nella stilizzazione delle sue scene da medioevo molto “neo-gotico”, appariva statica e con pochissime trovate sceniche, di cui una bella, ossia la riunione delle due prue della nave alla fine del primo atto (a simboleggiare il perdono di Isotta e la riunione dei due amanti), l’altra invero bruttina, cioè l’ambientazione del terzo atto in un ospedale (a rappresentare il ricovero del delirante eroe), alquanto spoglio e squallido, a metà tra lo psichiatrico ed il militare, nel senso però di ospedale da campo della prima guerra mondiale: insomma, molto incongruo.