Sono 25 anni che Massimo Priviero calca gli stage di tutta Italia con il suo rock. Fatevi un conto: nel 1989 i riferimenti del genere non erano molti in Italia. E, quel tipo di rock, sanguigno, originale, cantautorale, non ne ha avuti molti dopo. Un buon motivo per parlarne proprio con Priviero che, dopo un anno di concerti per il suo album Ali di Libertà, termina la tournée all’Alcatraz di Milano domenica 26 ottobre. Il concerto chiuderà un ciclo e verrà ripreso per futura pubblicazione.
Il primo singolo dell’album si chiama Alzati: cosa vuoi trasmettere con questo pezzo?
«Intendo incitare lo spirito di chi ascolta, lo faccio con comunicazione di forza esistenziale che fa parte della parte più rock dell’album, è una canzone nata per dare spinta e credere nella propria esistenza. Dico a chi mi ascolta: diventa protagonista di quello che fai anche in un momento difficile e complicato. Ovviamente il testo racconta anche di un mondo che gira storto, non di tutto quello che va bene.»
Un’attitudine che condividi?
«Tutto quello che scrivo prima lo racconto e lo dico a me stesso e poi lo traduco cantandolo agli altri. Cerco di condividere i miei stati d’animo che diventano pezzi di vita degli altri. Se si tratta di essere veri allora l’immedesimazione è essenziale: faccio il musicista ma la gente che mi ascolta guarda il mondo con occhi simili ai miei. Ho sempre pensato che scrivere fosse un atto di solitudine che vuoi condividere con la performance.»
Farai bilanci dopo questo tour?
«Alti e bassi ne ho avuti, se si parla di successo…ho avuto dischi in classifica e altri che hanno fatto poco dal punto di vista commerciale ma ho sempre fatto musica in maniera vera senza compromessi ed è l’unica cosa di cui vado orgoglioso. Sinceramente ricordo le categorie di Sciascia sugli uomini…io appartengo alla prima categoria, quella degli uomini veri.»
Questo sì che è un concetto di verità molto rock!
«Oggi ormai il termine rock è svuotato del senso e quindi parlo in generale di musica d’autore. Molto di quello che viene etichettato come rock è banale, commercializzato, fuffa che si fa girare nei ventilatori dei network. Diciamo che sono lontano da mitizzare il rocker come quello che cambia il destino del mondo.»
Eppure sentendo le tue influenze, sembra chiaro che vieni da quel mondo in cui un tempo i rocker erano davvero i poeti della generazione a cui si rivolgevano.
«Sì da ragazzo in Veneto ascoltavo Neil Young, Bruce Springsteen, sono loro che hanno segato la mia adolescenza. Forse viene fuori in maniera inconscia la loro influenza su di me, perché è la musica popolare che ha la forza di avere ganci continui col passato. Per questo nel mio caso anche in Italia agli esordienti capita di usarmi come riferimento e mi fa piacere, anche se poi devono trovare la loro strada. Se i riferimenti non sono studiati a tavolino sono sempre autentici.»
Ti sei fatto un’idea di come è stato recepito il disco che si chiama Ali di Libertà proprio in un momento in cui c’è proprio bisogno di queste due parole?
«È vero, nel titolo c’è proprio una speranza. Ho girato tutta l’Italia in tanti mesi di tour e devo dire che purtroppo sono sfiduciato nei confronti della massa, penso sempre che il paese resti in piedi su nicchie straordinarie che si autoalimentano mentre il grande magma è disperato e conformista. Io mi sento parte di queste nicchie e so di voler continuare così anche nel prossimo capitolo della mia carriera.»